Recensione di Massimo Faggioli (University of St. Thomas)
Chiamatemi Francesco. Il papa della gente, regia di Daniele Luchetti, 98 min., 2015
La preoccupazione principale dei recensori di un film sul papa di Roma sembra spesso limitarsi al compito di smentire oppure confermare che l’opera cinematografica sia un’agiografia o “un santino”. Al di là della superficialità della retorica del santino (e in questo film di santini ce ne sono parecchi, distribuiti dal futuro papa Francesco), questa preoccupazione rivela un problema reale: data la tendenza tipica del cattolicesimo contemporaneo a fare beati e santi quasi tutti i papi specialmente da Pio IX in poi, ogni biografia del papa (cinematografica e non) rischia oggi di farsi comprendere solo come un santino o al contrario come il tentativo di smontare un’immagine agiografica.
Il film di Daniele Luchetti su papa Francesco non è un’agiografia, ma un “biopic” che si avvale della collaborazione, tra gli altri, dei giornalisti Alver Metalli (di Terre d’America) e Gianfranco Svidercoschi (vaticanista di lungo corso) e identifica in modo preciso eventi storici e persone di riferimento nella vita di Jorge Mario Bergoglio in Argentina. Il film è ricco di spunti che rivelano intuizioni profonde circa la cultura spirituale e pastorale del futuro papa Francesco, come per esempio i suoi rapporti di lavoro con figure femminili di spicco. Ma il film non è agiografico perché la sceneggiatura tratteggia la vicenda di un prete cattolico in un periodo particolare della storia politica dell’Argentina. Il film apre con una breve parte sulla vocazione e formazione del giovane Jorge Mario poco più che ventenne, ma si concentra sull’azione di Bergoglio nel contesto della dittatura argentina (1976-1983), prima della mezz’ora finale sul suo periodo come vescovo ausiliare di Buenos Aires (1992-1998) e degli ultimi minuti sul conclave e l’elezione del 13 marzo 2013. Manca dal film (almeno dalla versione per le sale da 98 minuti: resta da vedere in quella televisiva lunga circa il doppio) la parte sul suo episcopato come arcivescovo e cardinale di Buenos Aires (1998-2013), compreso il conclave del 2005 che lo vide principale contendente di Joseph Ratzinger. Ma dal film manca soprattutto la parte più critica della sua vita come uomo di chiesa e gesuita: dalla fine del suo mandato come provinciale dei gesuiti (1979) fino alla nomina episcopale (1992), passando per il fallimento del progetto di conseguimento del dottorato in Germania e “l’esilio” a Cordoba (1990-1992). Questa lacuna dalla versione del film per le sale non sorprende: quel decennio comprende gli anni che si prestano di meno a una biografia storico-politica del futuro papa e invece esigono un esame profondo della spiritualità e cultura di Bergoglio.
Chiamatemi Francesco per le sale ha infatti lasciato da parte la biografia spirituale e culturale del futuro papa (specialmente i suoi anni da studente e da insegnante) e ha optato per una biografia ecclesiastica e politica del futuro papa. Il risultato è un’immagine sfumata e complessa di un Bergoglio scioccato dalle violenze del regime militare, ma anche equidistante dalla chiesa progressista della teologia della liberazione e dal conservatorismo teologico e politico dell’episcopato argentino (in cui la figura del vescovo martire Angelelli era una delle eccezioni). Circa i rapporti tra Bergoglio da una parte e il regime militare e l’episcopato dall’altra parte, il film di Luchetti è più benevolo di alcune solide biografie (specialmente quella del giornalista inglese Paul Vallely, pubblicata nel 2013 e riedita in edizione aggiornata con molti nuovi capitoli a metà del 2015) che mostrano alcune ambiguità del giovane provinciale dei gesuiti rispetto alla condotta da tenere di fronte al regime e le differenze di vedute tra Bergoglio e la maggior parte degli altri gesuiti, argentini e latinoamericani ma non solo. Le tensioni tra il giovane Bergoglio e la Compagnia di Gesù restano sotto traccia nel film, come anche, in un film molto politico come questo, la cultura politica peronista del futuro papa e i suoi contatti personali con comunisti in Argentina, sia prima sia durante la dittatura.
Nelle biografie su Jorge Mario Bergoglio i capitoli sulla sua vita prima dell’elezione al pontificato devono affrontare la questione della continuità oppure discontinuità di vedute – in teologia come in politica – tra il conservatorismo del Bergoglio giovane e il radicalismo del Bergoglio arcivescovo cardinale di Buenos Aires e poi papa. Da una parte vi sono i profili biografici che esaltano le continuità, dall’altra le analisi che vedono una cesura che avviene con la crisi dell’esilio a Cordoba seguito dalla nomina a vescovo ausiliare di Buenos Aires da parte del cardinale Quarracino. Il film di Luchetti non sembra prendere direttamente parte nella disputa storiografica: nel passaggio dalla lunga parte sulla dittatura alla nomina episcopale nel 1992 si accenna alla seconda vocazione nel senso di una svolta spirituale di un gesuita fuori dagli schemi, maturata a Cordoba. Tuttavia il film evidenzia lungo tutto l’itinerario ecclesiale del futuro papa Francesco la sua trasversalità ed eccentricità rispetto agli schieramenti politici e teologici. In una delle prime scene uno degli amici dice al giovane che ha appena deciso di farsi prete: “Tu con questa chiesa non c’entri niente”. Questa è l’impressione che molti cattolici hanno di papa Francesco oggi; ma la sceneggiatura sembra anticipare qualcosa che avviene nel futuro papa solo molto più tardi, quando Bergoglio diventa vescovo a Buenos Aires e poi a Roma.