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Un dramma americano: Tavola rotonda su “Abraham Lincoln” libro di Tiziano Bonazzi

Tavola rotonda con: Paolo Pombeni, Federico Romero, Matteo Sanfilippo e Tiziano Bonazzi

Paolo Pombeni (Istituto Storico Italo-Germanico)

Per tutti gli appassionati storia e di politica il volume che Tiziano Bonazzi ha dedicato al presidente della guerra civile americana è una lettura da non perdere (T. Bonazzi,  Abraham Lincoln. Un dramma americano, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 306, € 22). Prima di tutto perché è un libro scritto in maniera splendida, il che purtroppo sta diventando raro. L’autore crea un gioco di sfondi e di primi piani sul suo eroe che non solo è molto godibile, ma che ci porta davvero “dentro” una storia tutt’altro che semplice da dipanare.

Bonazzi è un grande specialista di storia americana, ma è uno di quegli specialisti che comprendono come i lettori non lo siano e quindi come abbiano bisogno di essere introdotti in un mondo che non è il loro: non solo perché si parla di un altro continente e di un’altra cultura, ma perché si parla di un’altra epoca, che va dagli inizi dell’Ottocento sino al 1865. Non è uno spazio di tempo breve come sembra, perché in quel lasso temporale cambia il mondo: gli Stati Uniti passano dall’universo della colonizzazione britannica con i suoi retaggi culturali, alla fase del grande stato che deve costruirsi come “nazione” inglobando la “frontiera” e il sistema economico di piantagione, l’industrializzazione e il commercio su larga scala, la religione del puritanesimo cristiano e quella del risveglio evangelico. E’ un quadro molto mosso che viene ricostruito in maniera davvero magistrale, con una conoscenza delle fonti tanto sicura che rende leggera e piacevole una lettura che deve spiegare fenomeni estremamente complessi.

Lincoln è il prodotto e l’attore di questa trasformazione. E’ un uomo che si è fatto da sé scalando i gradi sociali da una posizione di contadino povero a quella di importante avvocato e poi di politico di rilievo. Ma è al tempo stesso uno spirito tormentato, afflitto da crisi depressive e costantemente sfidato dal suo rapportarsi con un duplice orizzonte: una razionalità che lo porta a “dimensionare” la politica pur senza banalizzarla; un tormentato rapporto con la sfera del religioso, che costringe lui, sostanzialmente distante dal cristianesimo come pratica sociale e culturale, ad interrogarsi continuamente sul ruolo dell’Ente che se non governa il mondo almeno costringe gli uomini a chiedersi se alla fine non lo faccia davvero.

La vicenda di Lincoln si snoda su questo sfondo e dà forma al suo ruolo di leader costretto a misurarsi con il passaggio più difficile da immaginare: la sfida che punta alla dissoluzione dell’unità americana. Per un uomo come lui, nutrito della religione dei padri fondatori e del mito della costruzione americana come legata sia alla dichiarazione d’indipendenza che alla costituzione, è impossibile accettare che la federazione eterna che deve trasformarsi in “nazione” possa essere messa in questione da chi ritiene che invece esista solo una confederazione di stati che hanno conservato un diritto di opting-out. Ciò è in contrasto col fatto che per tutta una cultura gli USA non sono il frutto di un negoziato fra soggetti politici, ma sono la realizzazione di un fenomeno nuovo che deve essere di esempio e di insegnamento al mondo.

Bonazzi ha pagine molto acute nello spiegare questa traslazione fra l’immagine del popolo eletto della Bibbia e il nuovo popolo americano. Lincoln non si capisce se non in questo contesto, soprattutto nel momento in cui è messo di fronte alla secessione del Sud e alla guerra civile. «Il fallimento della costruzione nazionale non poteva, di conseguenza, non assillarlo, perché in quel progetto egli vedeva il manifestarsi della scintilla divina di libertà e, al tempo stesso, vi scorgeva il suo sogno whig di ordinato progresso civile e materiale. Lo schiavismo e la cospirazione degli schiavisti contro l’Unione e contro la stessa popolazione sudista avevano a suo avviso portato ad una guerra il cui esito andava al di là della mera sopravvivenza degli Stati Uniti; ma questo non voleva dire lasciar cadere le istituzioni americano» (p. 221).

Lincoln non è affatto un “redentore” degli schiavi né per filantropia né per progressismo estremo. La sua visione della questione è complessa: i neri non possono essere retrocessi al rango di animali su cui esercitare la potestà perché sono creature umane, ma al tempo stesso non per questo sono automaticamente eguali ai bianchi. In estrema sintesi è questo l’approdo finale di una riflessione sulla questione della schiavitù che è piuttosto tortuosa e complessa, ma soprattutto che vuole sempre essere realista, perché per Lincoln a dominare è la theory of necessity, un approccio che allontana qualsiasi trasporto verso l’utopia.

Sarà nella gestione complicata di una lunga guerra, in cui il presidente non vuole arrivare all’annientamento dei secessionisti, ma piuttosto al loro recupero nel quadro costituzionale da cui si sono allontanati per seguire delle cattive guide, che si compirà il tentativo di sintesi finale: trasformare una guerra civile in un’opera di costruzione della identità piena della nazione americana cosciente della missione che la storia le ha assegnato a beneficio di tutte le genti.

Davvero la figura tragica e fisicamente sgraziata di questo eroe americano (eroe costruito per la verità a posteriori dall’interpretazione che ne daranno i posteri) rivive con una forza al tempo stesso narrativa e scientificamente analitica in pagine di notevole potenza. Un’impresa che poteva essere fatta solo da chi va definito a buon diritto uno storico di razza.

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Federico Romero (Istituto Universitario Europeo)

Questo libro ha struttura e colori della biografia ma è anche molto di più del ritratto, di per sé già estremamente interessante, dell’uomo e del personaggio pubblico. Il lettore trova qui, in una scrittura limpida ed evocativa, l’intera traiettoria individuale di Lincoln: i passi della sua formazione e della sua carriera; un profilo sottile di una psicologia sofferta, in particolare per il rapporto quanto mai tormentato con la religiosità; alcuni tratti della sfera emotiva e sentimentale; e ovviamente il percorso intellettuale e politico. Ma costantemente intrecciato a tutto questo c’è l’affresco più ampio della crisi più violenta e dirompente della storia degli Stati Uniti. La quale va inquadrata, secondo Bonazzi, nelle tensioni morali, socio-politiche ed economiche della “Grande Europa” nel suo momento di massima espansione e ascesa globale.

Il libro insomma ci parla del circoscritto mondo individuale di Lincoln non meno che delle convulsioni del capitalismo dell’Ottocento su una delle sue frontiere più significative e determinanti, dove industrialismo e schiavitù, imperialismo e costituzionalismo, nozioni contrastanti di razza e soprattutto di libertà si intrecciano e scontrano in uno dei conflitti che definiranno non solo gli Stati Uniti ma l’intero mondo moderno.

Il tessuto narrativo di Bonazzi coniuga costantemente la storia grande e quella piccola (o, se volete, globale e locale), riallacciando le convinzioni etico-religiose di Lincoln al macro-quadro della storia del paese; coniugando l’esplosione e poi la risoluzione delle sue irrisolte tensioni costituzionali, etiche ed economiche con le incertezze ideali ed emotive del politico che naviga a vista tra dubbi intellettuali, lacerazioni caratteriali, realismo politico, e la sua personale depressione che (fortuna tutt’altro che scontata) non precipita nel fatalismo dell’impotenza.

E’ anche per questo uso della biografia come lente per scrutare il paese, e viceversa, che Bonazzi ci ha dato una delle migliori ricostruzioni storiche che abbiamo della lunga crisi americana di metà Ottocento. Perché non indulge mai alla semplificazione, al bianco e nero etico-storico, ad una qualsiasi teoria che faccia della semplificazione la sua chiave esplicativa. Al contrario, è un libro che prende di petto la complessità, l’intrinseca incertezza di ciascuno dei passaggi di quella crisi, rendendone con grande vigore la sua fondamentale open-endedness come cifra profonda della storia e della conoscenza stessa che la storia può dare, almeno per chi non si ritragga dalla fatica ed onestà intellettuale necessaria per apprenderla.

Si vedano, per fare solo un esempio, le pagine su uno tra i molti punti di svolta che precipitano una crisi immaginabile ma largamente imprevista nelle sue dimensioni e finalità, la sentenza Dred Scott con cui nel 1857 la Corte Suprema si fece parte agente e decisiva del precipizio. Fu quello il punto di non ritorno verso la rottura aperta e poi lo scontro. Qui il paradosso è che in termini di dottrina la decisione era tutt’altro che ovvia, e che proprio la corte che doveva agire da arbitro di costituzionalità si rovesciò in protagonista conflittuale, profferendo per molti aspetti il primo squillo della guerra civile che verrà.

Continuando nel suo lungo sforzo di liberarsi – e liberarci – dal mito americano, Bonazzi qui indaga a fondo alcune parti costitutive, fondanti, del mito politico che lo sorregge. E così facendo discute della “inconoscibilità della storia” con cui Lincoln, oscillando tra “impotenza disperata” e “impotenza pacificata” (p. 289), continuamente si confronta Sono, quelli, i poli emotivi e conoscitivi entro i quali si muove, non poi così paradossalmente, uno dei personaggi meno impotenti della storia. Ma sono anche i poli entro i quali si dibatte pure lo storico che indaga, conosce solo parzialmente, e così misura – se ha la modestia dell’onestà intellettuale – anche l’inconoscibile, oltre che il non agibile.

Sotto questo profilo il libro ha l’ulteriore valore aggiunto di una brillante, acuta, sofferta lezione di metodo storico (in particolare sull’uso delle fonti, sul ruolo riconosciuto delle supposizioni e delle ipotesi in mezzo a certezze relativamente scarse) che è anche una più ampia lezione di epistemologia. L’attore storico, infatti, ha una bussola approssimata e una mappa che cambia in continuazione sotto i suoi stessi occhi. Lo storico, per parte sua, ha naturalmente una mappa più consolidata e certa, ma pur sempre piena di vuoti e zone sfocate. E la sua bussola (etica oltre che conoscitiva) può essere utilizzata retrospettivamente solo con grande cautela e misura, con empatia oltre che capacità critica. Questa ricerca di direzione su di un terreno insieme vago e impervio, scarsamente conosciuto e solo parzialmente modificabile, è una delle più belle rappresentazioni del Lincoln di Bonazzi e, insieme, una delle più franche e illuminanti dimostrazioni di ciò che lo storico può e non può fare.

Il percorso di Lincoln, dalla convinta speranza che le strutture culturali, politiche e costituzionali della repubblica possano offrire soluzioni fattive, fino alla disperata ma determinata risoluzione dei nodi di basilare convivenza etica e costituzionale attraverso la guerra, ci parla non solo della peculiare diade americana schiavitù\libertà, ma più ampiamente delle aporie della democrazia, del suo più che imperfetto governo delle tensioni, e del modo – in questo caso davvero magistrale – con cui lo storico può esplorare e far tornare vivo e vibrante il passato.

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Matteo Sanfilippo (Università della Tuscia)

Discutere del recente volume di Tiziano Bonazzi, Abraham Lincoln. Un dramma americano, Bologna, il Mulino, 2016, significa affrontare la cinquantennale carriera dello studioso che ha fatto di più in Italia per far conoscere la complessità della storia statunitense. E questo mezzo secolo di riflessione si nota non appena si apre la biografia qui recensita. Subito viene infatti in mente che il primo libro dell’autore è di 50 anni fa, una breve vita di Washington apparsa nei Giano Bifronte assieme al Franklin di Raimondo Luraghi (Roma-Milano, CEI, 1966). Quel primo tentativo di sintetizzare un avvenimento chiave è seguito da due libri su altrettanti momenti topici della storia americana: Il sacro esperimento: teologia e politica nell’America puritana, Bologna, Il Mulino, 1970, e Struttura e metamorfosi della civiltà progressista. Saggi di storia e sulla storia, Padova-Venezia, Marsilio, 1974. Fra il 1966 e 1974 Bonazzi copre dunque l’età coloniale, quella rivoluzionaria e il passaggio dall’Otto al Novecento, mentre ci mette mezzo secolo a passare dal padre fondatore della Federazione al rifondatore degli Stati Uniti come nazione ottocentesca, uscita da una seconda guerra civile. La lentezza, ma anche la meticolosa preparazione di questo passaggio, apparentemente più breve, ci dice molto sulla sua importanza. Continua a leggere qui.

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Tiziano Bonazzi (Università di Bologna)

I colleghi hanno già detto molto e hanno colto in pieno i punti centrali del mio lavoro tanto che aggiungendo i loro commenti in appendice al libro si avrebbe un’opera certamente migliore. A me non resta che ringraziarli provando a muovere ancora un passo in base alla premessa che un libro cresce con chi lo legge e che più si legge più sgorgano significati. Se questo non succede il libro va chiuso e lo si rivende o lo si nasconde sul palchetto più alto della nostra biblioteca, dove la polvere si accumula prima. Il punto di partenza, quindi, è la biografia di Abraham Lincoln, con tutti i suoi limiti, in gran parte legati a quanto posso dare, in parte voluti o consciamente accettati. Come ho scritto nella Prefazione, ho voluto scrivere un’opera che si rivolgesse a un pubblico più vasto della comunità accademica; ma in conseguenza non ho approfondito del tutto la ricerca e non ho scritto almeno altre cento, necessarie pagine. Continua a leggere qui.

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