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Tavola Rotonda: Dopo il secolo americano

Pubblichiamo le relazioni che Federico Romero (Istituto Universitario Europeo), Matteo Battistini (Università di Bologna) e Daniele Fiorentino (Università Roma Tre) hanno tenuto alla dodicesima edizione della Summer School CISPEA (3-6 luglio 2016), con l’introduzione di Tiziano Bonazzi (Università di Bologna), direttore della scuola.

Il CISPEA (Centro Interuniversitario di Storia e Politica Euro-Americana) è il primo centro interuniversitario italiano ed europeo nel campo degli studi storico-politici sugli Stati Uniti ed è stato fondato da storici americanisti degli Atenei consorziati (Università di Bologna, Università di Trieste, Università del Piemonte orientale, Università di Firenze, Università Roma Tre). Suoi scopi sono l’analisi scientifica e il dibattito pubblico sulla storia e sulla politica statunitensi nel contesto dei rapporti transatlantici che hanno plasmato lo sviluppo degli Stati Uniti e dei paesi europei definendo la loro posizione all’interno della storia mondiale. Con questo fine il CISPEA promuove la ricerca scientifica, la didattica avanzata e il dibattito sugli Stati Uniti in ambito nazionale e internazionale attraverso l’organizzazione di seminari e convegni, la promozione di pubblicazioni, l’insegnamento della storia e della politica americana nei corsi universitari e post-universitari. Fra le attività più rilevanti e conosciute del CISPEA è la Summer School organizzata ogni anno dal 2005 grazie alla collaborazione della Cooperativa Boorea di Reggio Emilia. Con la scuola estiva, il Centro fornisce un’occasione di formazione avanzata a studenti, laureati, dottorandi e dottori di ricerca in ambito americanistico, su diverse questioni centrali della storia politica euro-americana: dall’eccezionalismo all’americanismo (e anti-americanismo), dalla democrazia al sistema politico e partitico, dalla cittadinanza allo stato sociale, dalla costruzione dello Stato-nazione alle relazioni internazionali fino alla globalizzazione (è possibile consultare i programmi e i materiali delle edizioni della scuola sul sito

Introduzione

Di:

Gli Stati Uniti nell’era post-americana

Di: , soprattutto alla luce dell’ascesa di una classe media cinese, nella regione asiatica come pure in quella latino-americana. Ciò che consegue da questa immagine è che, se negli anni Novanta la globalizzazione era stata accolta con ottimismo per le potenzialità di crescita e prosperità che sembrava portare con sé nel mondo politico post-liberal del clintonismo, a distanza di un ventennio per la classe media americana definisce un orizzonte oscuro (K. Phillips).

Polarizzazione del mercato del lavoro

Questa conclusione trova conferma in un secondo processo transnazionale: la polarizzazione del mercato del lavoro. L’ingresso di milioni di lavoratori a basso costo nel mercato internazionale, il crescente scambio di capitali, beni e servizi e la conseguente ferrea competizione economica su scala mondiale si riflettono in un mutamento della struttura occupazionale dell’economia statunitense. Con la delocalizzazione e il declino dell’industria manifatturiera tradizionale, con lo sviluppo del terziario e dei servizi all’impresa ad alto contenuto tecnologico, specie nel settore informatico e della comunicazione, dagli anni Ottanta si assiste a un processo centrifugo. Da una parte, sono aumentati i lavori ad alto contenuto professionale, creativo e altamente retribuito: high-skill jobs per scienziati, ingegneri e manager impiegati a tempo pieno. Dall’altra, è cresciuto il numero di quanti lavorano a tempo parziale, impiegati con compiti specifici e mansioni dequalificate di routine (low-skill jobs). Ne è derivato un netto calo delle tradizionali occupazioni qualificate: manager di medio livello, amministratori, professionisti di fascia intermedia, impiegati d’ufficio e operai specializzati. Quelle occupazioni cioè che hanno definito l’ossatura della classe media americana nel periodo cosiddetto della golden age of american capitalism, fra anni Quaranta e Settanta.
Molte di queste
sono scomparse a causa delle
innovazioni tecnologiche (informatizzazione
e automazione) oppure sono state delocalizzate in Cina o India, dove costano meno. Con il risultato che non solo le donne, specie se anziane o sole e con figli a carico, continuano ad avere retribuzioni più basse di quelle degli uomini, ma anche sempre più alte percentuali di donne e uomini bianchi ricoprono una posizione lavorativa e sociale simile a quella della maggioranza di afroamericani e ispanici (B. Cartosio).

Sebbene affondi le sue radici nelle trasformazioni economiche e sociali che seguirono alla frattura imposta dall’affermazione del neoliberismo (D. Rodgers), questo processo strutturale ha subito una decisa accelerazione con l’odierna crisi economica. Tra il 2007 e il 2009, non è mutato il totale delle posizioni high-skill e delle mansioni low-skill, mentre la recessione ha ulteriormente distrutto le occupazioni della classe media. La ripresa economica che ha caratterizzato il secondo mandato presidenziale di Obama non sembra sufficiente per invertire la tendenza: anche la diminuzione della disoccupazione non coincide con il ritorno a un numero rilevante di middle-skill jobs. Alla luce di ciò, la prospettiva è che, nel giro di un decennio o poco più, gli americani (specie le nuove generazioni), che erano abituati o che si aspettavano per l’istruzione ricevuta, di avere occupazioni di qualifica e reddito medio, presumibilmente in numero considerevole troveranno lavori dequalificati a basso salario. Come quelli nella ristorazione, nei servizi e nella cura alla persona che, essendo per lo più ad appannaggio di migranti o di donne e uomini delle minoranze razziali, acuiscono il senso di declassamento dell’America bianca. Il declino dell’industria manifatturiera e l’affermazione di nuovi settori ad alto contenuto tecnologico e fortemente integrati nel mercato mondiale sembrano dunque interrompere la continua espansione della classe media che aveva caratterizzato il Novecento.

Il mutamento del ruolo dello Stato

Queste tendenze alla sperequazione del reddito e alla polarizzazione del mercato del lavoro sono consolidate da un terzo processo transnazionale: il mutamento del ruolo dello Stato. In questo senso, si evidenziano il minor coinvolgimento del governo nel settore produttivo, l’abbandono del carattere redistributivo della fiscalità, la riduzione delle politiche di sicurezza sociale, soprattutto, il cambiamento nella direzione e negli scopi dei programmi di assistenza sociale. Mentre nel trentennio seguente la seconda guerra mondiale – sia nel linguaggio europeo di diritti sociali sia in quello americano di entitlement – si era affermata una visione espansiva di garanzia pubblica di prestazioni, oggi la loro residuale fornitura è sempre meno rivolta all’integrazione e alla mobilità sociale, con sempre maggiore frequenza alla mera assistenza per la riproduzione dei working poor (D. Schipler). Con la fine del welfare come era stato conosciuto nel Novecento – per usare le parole del presidente Clinton pronunciate prima dell’approvazione della legge dell’ottobre del 1996 con cui il Congresso a maggioranza repubblicana chiudeva il sistema nazionale di assistenza sociale istituito con F.D. Roosevelt nel 1935 – si è affermato compiutamente il cosiddetto welfare to work ovvero programmi che, in estrema sintesi, non vanno a integrare il reddito favorendo consumo e mobilità, piuttosto sono vincolati all’accettazione del lavoro, qualsiasi esso sia, anche se precario e povero (E. Vezzosi).

In rapporto alla classe media, ciò non sta avendo effetti negativi soltanto sulla redistribuzione del reddito, con l’esclusione delle famiglie middle-class da numerosi servizi sociali ridotti alla stregua di privilegi della povertà. L’ulteriore effetto è la drastica riduzione delle occupazioni associate ai servizi sociali, occupazioni che costituivano una percentuale importante del lavoro white-collar. I lavori qualificati assicurati dal settore pubblico garantivano crescenti opportunità di acquisire un livello di reddito e ricchezza patrimoniale che oggi non sono alla portata delle nuove generazioni: la riduzione dei servizi e la loro privatizzazione bloccano il ciclo virtuoso dell’espansione della classe media che aveva caratterizzato il secolo scorso (T. Skocpol).

Su queste basi, Krugman ha parlato di

Nuovi immaginari culturali dopo il “secolo americano”

Di: Daniele Fiorentino

Se il secolo americano è superato non lo sono del tutto i modelli e i parametri di riferimento emersi in quella breve età in cui gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo preponderante a livello internazionale. Le analisi di Romero e Battistini mettono in evidenza le caratteristiche che prima hanno segnato quel secolo e poi contribuito a definire il suo superamento, ma nell’analizzare l’immaginario collettivo di un popolo, le sue aspettative, i suoi sogni e le sue speranze è possibile trovare dei fili che collegano l’era attuale a quella appena passata, rintracciandone continuità e cesure. Si tratta certo di un esercizio difficile che richiede di sacrificare inevitabilmente molti aspetti della cultura e delle usanze del paese per concentrarsi su ciò che sembra rappresentare nel modo migliore un certo modo di pensare e affrontare la vita e il futuro. In generale lo studioso deve fare una scelta che è tanto metodologica quanto analitica: l’uso di metodologie interpretative diverse e la scelta degli ambiti in cui applicarle. Fare tutto ciò nel momento in cui l’America, e non solo, attraversa una fase di difficile transizione, è una vera sfida.

Per capire meglio approccio e metodologia si può partire da un evento piuttosto recente: la visita in Scozia di Donald Trump il 25 giugno 2016. Scrive Paolo Mastrolilli su La Stampa: “Questo è solo l’inizio. La dissoluzione dell’Unione europea è in corso” – dice il candidato repubblicano. Oltre a congratularsi con se stesso per averla prevista, Donald Trump fa un’analisi della Brexit che a suo avviso gli apre direttamente la porta della Casa Bianca: “Vedo molti parallelismi tra quanto è successo in Gran Bretagna, e quanto sta accadendo negli Stati Uniti. Le persone vogliono riprendersi i loro Paesi, riaffermare la propria indipendenza, e questa è una cosa buona”. Se un anno fa avessimo chiesto a un americano qualunque (ma anche a un europeo) cosa si aspettava dalla candidatura di Trump alle primarie avrebbe risposto che non sarebbe durato molto, vuoi perché ne era un acerrimo nemico e quindi era sicuro che altri come lui non lo avrebbero votato, vuoi perché convinto di votarlo come immaginario paladino dei diritti di chi sta perdendo tutto o rischia di perderlo, e quindi sicuro che i poteri forti di Washington e Wall Street ne avrebbero fermato l’ascesa. Al tempo stesso mai avrebbe pensato che il Regno Unito potesse uscire dalla UE e mettere quindi in discussione anche la special relationship tra Stati Uniti e Gran Bretagna. Infatti questi due eventi erano inimmaginabili solo pochi mesi fa e molti analisti su entrambe le coste atlantiche hanno fatto ammenda per aver affrettato conclusioni, non sostenute dall’evidenza, sullo stato d’animo del cittadino “transatlantico”.

Nelle primarie presidenziali di quest’anno sono venuti alla luce tre importanti fattori che possono aiutare a entrare nell’immaginario collettivo del popolo statunitense: 1. Innanzitutto l’ormai dilagante sfiducia verso la politica e Washington: la diffidenza verso il governo, quello che nella sua migliore formulazione Thomas Paine aveva definito un male necessario; 2. I tre candidati principali della contesa 2016 rappresentano risposte diverse a una malaise diffuso, e la prima candidata donna della storia raffigura in fondo l’establishment nella sua forma forse più consumata, tanto da potersi dire un modello di una delle serie televisive di maggior successo degli ultimi anni, House of Cards. La coppia Underwood, protagonista della serie, ha indiscutibilmente diversi punti di contatto con i Clinton, compresi i tradimenti, affettivi e sessuali ma soprattutto dei migliori amici; 3. Se Trump offre una risposta populista al malaise, essa somiglia più ad altre situazioni simili nel mondo del nord Atlantico che al tradizionale populismo americano e questo è dovuto anche a una condivisione sempre maggiore a livello transnazionale di idee, modelli e aspirazioni.

Nel corso degli ultimi anni, le serie televisive hanno rivisitato e interpretato le ansie del popolo americano forse meglio di altre forme di narrazione come il cinema e la letteratura. Attraverso un racconto serrato capace di offrire intrattenimento ma al tempo stesso modelli diversi di esseri umani, non sempre positivi, hanno dimostrato di avere la capacità di raggiungere un pubblico molto ampio facendo peraltro uso di un linguaggio accessibile a tutti. Esse rappresentano dunque un ottimo strumento di lettura della società e un’utile proiezione di sogni e paure dei cittadini americani.

Il malessere diffuso negli Stati Uniti si rispecchia in molti aspetti della vita quotidiana e nella narrazione che gli Stati Uniti vanno facendo di se stessi.  Gli americani sono alla ricerca di qualcosa di più vero e genuino, in qualche modo capace di riportarli ai valori originali della repubblica perlomeno come ci si immagina potesse o dovesse essere,  mentre hanno la sensazione di vivere in un paese che ha perso il contatto con la sua vera identità. È una ricerca per tornare a un immaginario unsophisticated. Questa disillusione non si manifesta solo nella politica o nei confronti dei masters of the universe della grande finanza. È riscontrabile in una serie di aspetti differenti della vita quotidiana soprattutto di quella classe media che ha rappresentato l’asse portante del secolo americano: dalla nuova tendenza verso l’organic food, il risparmio energetico e il salutismo nei suoi diversi aspetti, alle palestre sovraffollate e alle diete più esoteriche, indici di una ricerca di ritorno al giardino originale, che non c’è mai stato ma fa parte del mito identitario americano (Marx, Nash). Paradossalmente però questa “ricerca dell’organico” sta rischiando di portare a un’ulteriore sofisticazione (si pensi soltanto alla manipolazione anche dei prodotti più semplici della terra, per cui ormai alcuni community college offrono corsi per il riconoscimento di cibi organic e gmo).

Si parla molto di una cittadinanza globale e di una transatlantica. Se queste formule possono essere di certo applicate nella sfera economica, e in qualche misura in quella politica, è molto più difficile utilizzarle invece per gli aspetti culturali. Lo scambio tra le due coste del nord atlantico è molto intenso ma spesso fatica a trasferire immaginari e aspirazioni poiché l’universo di riferimento culturale rimane comunque distinto. Si potrebbe sintetizzare questo concetto dicendo che mentre le informazioni passano esse vengono lette però sulle due sponde in base a parametri diversi. Così se per esempio la risposta europea all’organic è slowfood,  che forse è una delle principali esportazioni dell’immaginario del vecchio continente verso il nuovo dopo la fine della Guerra fredda, la rivoluzione digitale partita in America ha cambiato invece, e di molto, il modo in cui noi tutti percepiamo il mondo di oggi. I nuovi strumenti digitali sono il mezzo più efficace di globalizzazione ed entrano nella sfera privata in modi che fino a pochi anni fa erano inconcepibili. I computer, i sistemi operativi, i social network e le tecnologie in generale, sono generati e diffusi dagli Stati Uniti e hanno un impatto non indifferente non solo sull’immaginario americano ma su quello di un po’ tutto il mondo e in particolare sull’Europa. Se quindi lo scambio è transnazionale è possibile vedere come esso avvenga in entrambe le direzioni ma ancora con un predominio del nord America sull’Europa, almeno nella sfera dell’immaginario. In modo apparentemente paradossale, nel momento in cui gli Stati Uniti cominciavano a cedere parte della loro influenza economico-militare a livello internazionale tra gli anni Settanta e Ottanta, i modelli culturali da essi creati si andavano diffondendo in forma sempre più significativa e non solo in Europa.

Allo stesso modo, i due eventi drammatici che hanno segnato la svolta di questo inizio secolo a livello mondiale sono avvenuti negli Stati Uniti e la loro universalità è ormai indubbia: la grande maggioranza degli abitanti della terra ha ben impresse nella mente le immagini degli aerei di linea che, volando a bassa quota, si vanno a schiantare nelle Twin Towers; questa stessa maggioranza soffre ancora oggi a distanza di otto anni, delle conseguenze di una crisi economica indotta da speculazioni e giochi di potere nei quali non aveva nessuna voce in capitolo ma dei quali ancora oggi porta le conseguenze. Grazie ai media, ai social network e alla circolazione di informazioni e notizie in tempo reale il cittadino, perlomeno quello transatlantico, sa ormai cosa è lo spread, come esso incide sul PIL e come funzionano i meccanismi della borsa, anche se non ha investimenti o interessi diretti in gioco. Questo cittadino però ha anche a disposizione altri strumenti, diciamo virtuali e non, che gli permettono di entrare in un mondo immaginario nel quale, come nella migliore tradizione della letteratura di denuncia e del feuilleton,  è possibile vivere surrettiziamente una realtà che spesso risulta ostile (Di Chio 38-39).

Questo avviene grazie ai social ma anche e soprattutto attraverso il rinnovato successo del mezzo televisivo trasformato dalle nuove tecnologie. Come scrive Aldo Grasso a proposito delle serie televisive come strumento di lettura del presente: “La serialità televisiva è forse la vera espressione del nostro tempo, al centro di infiniti raggi di vincolante degnità, la via di transito dei molti significati che ci circondano e che spesso ci appaiono illeggibili. Il telefilm è un misto fra autorialità pura e design, fra idea e fabbrica, una miscela meravigliosa e impossibile di creatività e ripetizione, di ricalco e riscrittura […] Nelle serie c’è il profumo dei giorni che si susseguono, tutti più o meno uguali, tutti più o meno programmati” (32).

Se la realtà politica è sempre più distante dai cittadini, qualunque sia la loro nazionalità, le serie televisive, i film e i romanzi aiutano a leggerla da più punti di vista spesso riproducendo i dubbi più inquietanti. Al tempo stesso però producono un effetto “balsamico”, per cui i protagonisti assomigliano molto ai personaggi reali ma li superano in mistificazione e brutalità. Frank Underwood (Kevin Spacey), il protagonista di House of Cards, sembra essere un mix perfetto di George W. Bush, Bill Clinton e Donald Trump, ma è un criminale e applica fino alla perversione il principio che per fare politica bisogna sporcarsi le mani (Perry 103-105). Se la politica di Washington è corrotta, Underwood lo è molto di più. Così lo spettatore da una parte vede confermati i suoi dubbi più atroci, dall’altra è confortato dall’estremizzazione dei suoi sospetti che potrebbero essere superati dalla realtà ma forse non lo sono. House of Cards  conferma la sensazione diffusa della profonda corruzione esistente nella capitale e in tutti i gangli vitali della pubblica amministrazione, mentre Homeland, la serie della Fox, offre la prova del clear and present danger del terrorismo ma anche degli abusi che i servizi segreti, di sicurezza, di polizia del paese possono commettere. Quello stesso spettatore si può rifugiare nel confortevole successo di James Donovan, il protagonista reale di Bridge of Spies, il recente successo cinematografico di Steven Spielberg che ricorre alla Guerra fredda per ritrovare la solidità dei valori americani di libertà e democrazia contro un nemico chiaramente individuabile. Nel frattempo però si ritrova a leggere Purity di Jonathan Franzen, o Città in fiamme, il caso letterario del 2015 di Garth Risk Hallberg, dove invece la crisi del modello americano emerge proprio poco dopo la morte del vero Donovan, avvenuta nel 1970. In forma diegetica vive in un mondo surrettizio che assomiglia terribilmente a quello vero. Questa è forse la differenza più significativa, favorita dalla nuova televisione interattiva e dal computer, del nuovo immaginario americano nel XXI secolo.

Franzen colloca la caduta dell’American way of life negli anni Settanta del Novecento, cosa su cui concordano ormai gli studiosi. Ma se si vuole situare anche la fine dell’ordine mondiale a conduzione americana in quel periodo bisogna tenere presenti altri aspetti e non solo i risvolti economico-politici. Proprio in quel decennio, infatti, emergevano nuovi sistemi di comunicazione che si preparavano a rompere il monopolio delle grandi reti televisive americane: la tv via cavo e/o via satellite. Furono queste, e in particolare quella che si trasformò ben presto in un consorzio di piccoli produttori locali, Home Box Office (HBO), a dare l’avvio al formato del telefilm seriale indipendente. Esso inizialmente aveva la peculiarità di offrire veri e propri feuilleton della durata di centinaia di puntate, per poi trasformarsi nelle attuali serie televisive che durano diverse stagioni ma non contengono più di dodici o quattordici puntate per stagione (Martin 47-49). Ciò consente ai produttori di offrire un prodotto molto più raffinato e autoriale che somiglia sempre di più al romanzo. È stata la cosiddetta terza golden age della televisione a fare poi il resto. L’introduzione del digitale e la possibilità di una fruizione articolata da parte dello spettatore che non deve più necessariamente attendere la puntata successiva ma può scaricare le puntate, o comprare il DVD, per vederle secondo tempi e modalità suoi propri, fa sì che la serie si affianchi se non sostituisca il romanzo (Grasso 23).

Leggendo la nuova letteratura americana o guardando i racconti prodotti dalla televisione e dal cinema, emerge un dato abbastanza chiaro, un’analisi che ormai gli storici danno per scontata, ovvero che il secolo americano comincia a declinare negli anni Settanta del Novecento, sulla scia della guerra del Vietnam, le bugie di Johnson e Nixon, il cinico realismo internazionale dello stesso Nixon e di Kissinger, l’ingenuità e la serie di passi falsi di Carter, il conflitto in Medio-Oriente, la crisi del petrolio, l’inflazione a due cifre in buona parte del mondo occidentale, la rivoluzione islamica in Iran, e altro. In quella fase storica gli USA persero progressivamente il ruolo che avevano ricoperto per circa trent’anni. Eppure contestualmente, il modello americano raggiungeva l’apice del gradimento. La musica, il cinema, la televisione, perfino la letteratura americana diventavano la narrazione di un mondo nordatlantico (spesso definito più comodamente occidentale) che opponeva i suoi valori di libertà e democrazia alla tirannide comunista. Perfino al di là della cortina di ferro si ascoltava il rock anglo-americano, si ambiva a possedere un paio di jeans Levi’s o a mangiare l’hamburger di McDonald’s; o si passava sotto banco la letteratura proveniente dall’altra parte dell’oceano (Ritzer 185-190; Nolan 341-342). Nel momento in cui il malaise, come Carter aveva definito quell’età dell’ansia, colpiva anche chi non aveva partecipato ai movimenti di protesta dei decenni precedenti finiva per mettere in dubbio l’effettiva capacità di funzionare del capitalismo liberale nella sua versione americana.

Per capire queste trasformazioni è dunque necessaria una metodologia interdisciplinare capace di aiutare lo storico a trovare un’interpretazione complessiva di fenomeni altrimenti estranei ai suoi strumenti di lettura della realtà. La narrazione, il racconto, nel momento in cui reinterpreta e riracconta la realtà incide su di essa (Ricoeur). Incide sulla società e sulla stessa organizzazione dello Stato, sul modo in cui esso può operare e su cosa è rilevante per una sua definizione complessiva. Come è stato rilevato di recente dai nuovi studi di geografia politica di Meehan, Shaw e Marston, tanto gli oggetti che la loro funzionalità, il loro uso e il loro recondito significato tendono a mutare la comune percezione del vivere collettivo, le sue strutture e la sua funzionalità. In questo senso, la fiction, sia essa televisiva, cinematografica o letteraria, contribuisce a farci vedere il non visibile, a immaginare come certi oggetti, certe dinamiche di rapporto umano, e certe interrelazioni, anche tra esseri umani e oggetti o accadimenti determinati dall’interazione tra quegli oggetti e gli esseri umani, ci portano a ripensare la nostra stessa realtà e a riorganizzarla anche sulla base delle conoscenze che “acquisiamo per immaginazione”.

Per questo le nuove serie televisive incontrano tanto favore e ascolto: esse consentono di distaccarsi dalla realtà e al tempo stesso di reificarla. Il racconto diventa l’evento nel momento in cui viene raccontato, e offre uno sguardo sulla realtà vissuta che altrimenti non potremmo avere (Ricoeur). Da questo punto di vista, come avviene d’altronde spesso nei romanzi, e non solo della letteratura colta, la fiction può raccontare qualcosa che storici e politologi non possono dire perché non hanno i documenti per provarlo. L’immaginazione è giocoforza costretta dal documento che lo storico interpreta. Per usare una metafora, lo storico è un giudice che ha bisogno di un paradigma indiziario e di prove per decretare la sua sentenza e ricostruire i fatti (Ginzburg 192-193), lo showrunner, cioè chi gestisce tutta la scrittura e produzione di una serie televisiva, è un cantastorie che dice la verità che tutti conoscono ma che nessuno può dire perché non ci sono prove (Grasso, Penati). Si è documentato, ha studiato anche lui, ma poi ricostruisce un universo parallelo alla realtà, molto verosimile ma per nulla vero, eppure altrettanto rivelante.

Come sostengono Penfold-Mounce, Beer e Burrows in un breve saggio sociologico su The Wire, “lo show stesso è un oggetto che libera forze reali sul mondo tangibile, stimolando al contempo un immaginario attraverso una sorta di sociologia lirica”, una forma narrativa per la cultura di massa. In fondo niente di nuovo se si pensa al ruolo che opere come The Jungle di Upton Sinclair, o How the Other Half Lives di Jacob Riis o i racconti urbani di Edith Wharton, giocarono all’inizio del Novecento nell’attrarre l’attenzione non solo dell’opinione pubblica, ma anche di una classe politica sempre più scollata dalle esigenze dei cittadini. La richiesta di maggiore trasparenza e di corretta gestione della macchina dello Stato di allora trova degli importanti paralleli con la realtà di oggi e con la funzione narrativa nel contribuire a leggere un mondo sempre più complesso e difficile da comprendere.

Se si prendono ad esempio, tre diverse serie televisive di successo che parlano in modo diverso di politica e della sua gestione, e del rapporto dello Stato con i cittadini, House of Cards, Homeland e The Wire, è possibile entrare, anche se solo immaginariamente, dentro un mondo che ci sembra di conoscere ma percepiamo come estraneo ed è al tempo stesso parte della nostra realtà quotidiana. Esso determina il rapporto che intratteniamo tanto con altri esseri umani che con lo Stato. Attraverso le esperienze e gli occhi dei protagonisti della fiction si è  in grado di vedere un’America percepita, ma che non vediamo realmente. Queste serie propongono una lettura del paese a più livelli che sembra poi concretizzarsi per esempio nella campagna elettorale di Donald Trump e Hillary Clinton, come nel caso di House of Cards. Qui il distacco del politico di mestiere dai più immediati bisogni della cittadinanza e la corruzione imperante offrono una lettura della crisi della politica. Homeland concentra invece la sua azione sulle vicende di spionaggio internazionale nel quale le scelte sono determinate spesso da un’agente senza scrupoli, Carrie Mathison, interpretata da Claire Danes, una schizoide che mette a disposizione della CIA la sua ossessiva dedizione al lavoro e le sue capacità intuitive spesso violando le regole. Mentre The Wire, come d’altronde la serie True Detective, mostra tutte le ambiguità dei “difensori dell’ordine” nella lotta e connivenza col crimine in una città americana, Baltimora, che ha attraversato una lunga crisi tanto economica che politica e sociale a partire dagli anni Settanta e solo adesso comincia a riemergere da una condizione di sfaldamento e conflitto urbano.

A tutte e tre le serie si può applicare ancora una definizione usata da Penfold-Mounce, Beer e Burrows: “The Wire è il dissenso […] É forse l’unica narrazione televisiva che suggerisce apertamente che le nostre strutture politiche, economiche e sociali non sono più sostenibili, e che no non andrà tutto bene” (3). I loro protagonisti non sono eroi positivi al 100%, anzi alcuni di loro sono decisamente dei villains che hanno preso il potere o lo gestiscono in modo molto discutibile. Ovviamente l’esempio migliore in questo senso è Underwood, ma anche gli altri protagonisti sono sempre su un crinale in bilico tra legalità e illegalità, tra giustizia e violenza, tra buoni e cattivi. La fiction americana, dal cinema alle serie televisive, non riesce più ad offrire i protagonisti buoni, il settimo cavalleggeri che salva i pionieri in pericolo, contro un nemico ben identificabile perché affatto diverso, gli indiani o i comunisti, ma personaggi che aiutano gente ferita come loro, vittime di una politica ormai estranea e di un sistema economico che ha rimesso in discussione il concetto stesso di classe media (Battistini). Si potrebbero addirittura collegare questi sceneggiati in una catena dove il potere, senza scrupoli e solo alla ricerca di consenso (House of Cards), ignora le condizioni psichiche del soldato liberato dalla prigionia in Afghanistan (Nick Brody in Homeland) e lascia che la criminalità organizzata imperversi nella città, come in The Wire, perché di quella criminalità è spesso responsabile; nella realtà probabilmente in modo indiretto (ma forse neanche troppo) mentre nella fiction ne è addirittura il mandante.

In fondo la fiction, che si tratti dei romanzi d’appendice, del cinema, delle serie televisive, è il racconto di come una società si percepisce; ma come molti studiosi ormai concordano, le serie televisive sono il nuovo romanzo di appendice e raccontano in forma drammatica una realtà altrimenti difficile da rendere in un formato facilmente comprensibile al grande pubblico e di immediata comunicazione. Come scrive Martin, la serie televisiva di 12-13 puntate in più stagioni ha preso il posto del cinema degli anni Ottanta e della letteratura dei Settanta nel descrivere un’America in mutamento. Già in quel cinema e in quella letteratura si trovavano i semi della crisi. Il sogno americano era stato messo in discussione, ma è solo con la nuova forma narrativa del serial che la crisi si può affrontare nel suo più profondo significato (Martin 11). Non è più tutto bianco o nero ma ci sono tante e diverse sfumature. Spesso il protagonista è un cattivo, Tony Soprano o Frank Underwood, ma ha le sue ragioni ed è il prodotto di una certa America. Un’America che ha perso la sua innocenza una volta per tutte.

Al malessere generalizzato Obama, al contrario di Underwood, ha cercato di dare risposta. All’inizio del suo mandato, il presidente ha cercato di soddisfare due esigenze che il popolo americano sembrava avere a cuore: trovare risposte alternative al sentimento diffuso nella nazione; una nazione quasi in procinto di disgregarsi, destabilizzata continuamente da crisi e scontri interetnici e da una situazione economica che ha messo profondamente in difficoltà quella classe media che è l’asse portante del sogno americano; l’altro era proporre delle soluzioni possibili a un mondo diviso, tormentato dal terrorismo internazionale e destabilizzato da poteri economici forti che sembravano tendere sempre più al massimo profitto a danno della massa (Indick, Lieberthal, O’Hanlon 3). Obama sembrava il personaggio ideale per dare le risposte che non solo gli americani si aspettavano, la personificazione di un mondo sempre più globale e multietnico. Ma anche qui la fiction ha in qualche modo anticipato o affiancato la realtà: un’altra serie televisiva, 24, propone ben due anticipazioni, forse. Prima un presidente nero, David Palmer (Dennis Haysbert), e poi una presidente donna, Allison Taylor (Chery Jones), un mix di idealismo e pragmatismo obamiano e concentrazione e determinazione alla Hillary Clinton.

Le elezioni presidenziali americane sono d’altronde a loro volta uno show mediatico di non poco conto dove realtà politica e fiction si incontrano e si allontanano a più riprese. Un’eventuale elezione di Trump significherebbe una vittoria, per quanto momentanea, delle forze della conservazione perché quella generazione che per il momento ha votato a grande maggioranza Sanders, e forse si prepara ad astenersi alle presidenziali di novembre, che in Inghilterra ha votato Remain, arriverà a essere la maggioranza nel giro di dieci anni o poco più, e finirà per invertire un trend determinato dalla frustrazione di una generazione cresciuta e prosperata tra gli anni Sessanta e Ottanta. A contribuire a questi sentimenti è un risorgente millenarismo e la paura del presente, cresciuti esponenzialmente a partire dagli anni Settanta.

Così come nella letteratura, le serie televisive del primo decennio del XXI secolo dimostrano come gli americani abbiano bisogno di guardarsi indietro e di ripensare cosa sia stata effettivamente la società della Guerra fredda e come si sia usciti da essa. La fine di quel lungo periodo che li aveva visti protagonisti insieme all’Unione Sovietica, comportava qualcosa di più complesso dei toni trionfalistici e autoreferenziali della fine del XX secolo. Il cinema non è stato da meno. I topoi classici dell’avventura e della storia americana sono stati rivisitati ripetutamente. Gli eroi, anche se spesso giovani, non sono più assertivi come negli anni Cinquanta e Sessanta, e d’altronde questa revisione del cinema trionfalistico era già in atto ben prima dell’11 settembre 2001. Stiamo però assistendo a una certa inversione di tendenza rispetto alla cinematografia del primo decennio del nuovo secolo che vale la pena sottolineare. Mentre nei primi anni si era avuto un ribaltamento dei ruoli classici di eroi e villains, ovvero la presenza più frequente di eroi positivi anziani o alle soglie della vecchiaia e una rivisitazione di quel mito fondante della nazione che è la frontiera (Fiorentino), nelle ultime grandi produzioni cinematografiche sembrano tornare eroi positivi dal passato, con una fondamentale differenza però: si tratta di personaggi realmente esistiti. Gli esempi migliori sono l’esfiltratore della CIA  Tony Mendez, che portò in salvo da Teheran i funzionari dell’ambasciata americana sfuggiti all’attacco degli studenti islamici sostenuti dal nuovo regime khomeinista nel 1979, protagonista del film di Ben Affleck, Argo, e James Donovan (Tom Hanks) di Bridge of Spies, assicuratore, abile uomo medio americano. Donovan, grazie alle sue capacità di mediatore e venditore, riuscì a far liberare il pilota dell’aereo spia U2 Francis Gary Power, catturato dai sovietici e lo studente Frederic Pryor arrestato dalla Stasi. Due eroi americani realmente esistiti.

Queste storie sono ben diverse da quella raccontata ad esempio da Martin Scorsese in The Departed (2006), dove tutto sfuoca nell’incertezza di chi sia il colpevole della degenerazione e della violenza. Scorsese riassume questa incertezza in un’avvincente trama di scontro e intreccio tra affari criminali e polizia nella quale si confondono buoni e cattivi, confondendo al tempo stesso lo spettatore.

Molta della cinematografia e della televisione di questi ultimi anni risente inevitabilmente anche del problema del multiculturalismo e cerca di fornire qualche risposta senza apologie di melting pot o mutua comprensione, ma ben conscia dei continui ritorni di violenza etnica nel paese. Gli Stati Uniti hanno perfino un presidente nero, ma la questione razziale rimane aperta anche perché a quella nazionale se ne è aggiunta una internazionale che ha a che fare con l’Islam. L’11 settembre e il nuovo stato di sicurezza messo su da George W. Bush, che Obama aveva promesso di smantellare ma poi non ha voluto o non è stato in grado di fare, hanno portato gli Stati Uniti a un progressivo isolamento. Ora Trump minaccia addirittura di alzare nuovi muri come se quelli del passato e quelli esistenti non bastassero. Come sottolinea Edward Alden nel suo The Closing of the American Border (2009), gli sforzi dell’amministrazione Bush a partire dai giorni successivi all’11 settembre finirono per isolare gli Stati Uniti e trasformarli in una sorta di fortezza. La creazione di un ministero ad hoc, guidato nella sua prima fase da un consigliere personale del presidente, Tom Ridge, ne era la prova più evidente. Il Department of Homeland Security dovrebbe garantire la sicurezza interna e i confini del paese. A volte diventa invece un pericolo per la nazione, i suoi valori, la sua identità. Tende a tenerlo ripiegato al suo interno, isolato da quel contesto internazionale in cui gli Stati Uniti sono inevitabilmente immersi.

Il National Security State ha trovato inevitabilmente molte letture nella fiction, anche perché rende bene per immagini e perché rappresenta una delle priorità dell’America di oggi. Insieme ovviamente a Homeland, si può pensare a un’altra serie, alquanto fantapolitica ma esplicita, The Americans, che propone una coppia di “bravi cittadini americani”, in realtà agenti segreti del KGB, infiltrati negli Stati Uniti degli anni Ottanta. In entrambi i programmi viene recuperato il mito della frontiera come luogo liminale di violenza e rigenerazione, ma lo si rimette costantemente in discussione. Mentre però la violenza della frontiera del mito è funzionale a una redenzione dell’individuo e alla costituzione o ricostituzione di solidarietà nella comunità di appartenenza, quella degli Stati Uniti di oggi sembra essere fine a se stessa e rischia di tornare a essere una frontiera nel senso originale del termine, un confine, un ostacolo. Ma il processo di globalizzazione in atto, la permeabilità dei confini in tutte le direzioni, confini che si minaccia costantemente di sigillare (vedi Trump), sembrano preludere all’imprescindibilità del confronto che porta anche violenza ma può sciogliere una volta ancora il rischio di isolamento che corre il paese.

La frontiera è un limite, ma è e deve essere valicabile. La nascita del World Wide Web proprio a ridosso della fine della Guerra fredda sollecita i cittadini transatlantici, e degli Stati Uniti in particolare, a uscire dalla propria sfera di riferimento e a stare in contatto con il mondo. Rimanere isolati, impermeabili ai rischi provenienti dal mondo esterno, diventa praticamente impossibile considerata la quantità di informazioni che il Web è in grado di portare ovunque. Facebook consente poi, soprattutto a una nuova generazione per la quale la Guerra fredda è storia e l’11 settembre un trauma infantile, di essere continuamente collegati con gli altri nel mondo. Il rischio di isolamento è così scongiurato. In questa prospettiva gli eventi degli ultimi cinque anni sembrano proporre un confronto tra due modelli: la caccia ai terroristi rimanda ai duelli della frontiera, mentre i social network superano anche la frontiera  del mondo arabo.

Cosa c’è dunque nel futuro della nazione americana e come viene rappresentato nell’immaginario collettivo del paese? A questo punto si può tornare all’argomento iniziale, ovvero le elezioni presidenziali in corso e House of Cards. Come ha scritto David Grondin, le fiction ci permettono di proiettare un futuro distopico che mette in evidenza le incongruenze del gioco politico o del National Security State oggi, permettendo altresì di aprire la discussione sullo stato del paese e sulle aspettative dei cittadini a strati sempre più ampi di popolazione. Inoltre, le serie televisive soprattutto, e la fiction in generale, danno la possibilità di leggere il significato più profondo dei timori della gente comune poiché trasferiscono l’immaginazione in un significante capace di maggiore immediatezza e semplicità. Come ha sottolineato Grondin, studiando le modalità dell’intrattenimento di massa è possibile acquisire utili informazioni sui cambiamenti in atto nei parametri di riferimento del paese, e su come essi possano essere consolidati attraverso la narrazione e la fiction. Realtà e finzione sono complementari e l’una può trovare riferimenti nell’altra. A questo proposito, Beau Willimon, lo showrunner di House of Cards, ha avuto due idee geniali che da una parte promuovono ulteriormente la serie, dall’altra interagiscono con la campagna elettorale in atto. Ha tappezzato le città americane di manifesti elettorali della campagna 2016 di Underwood, in alcuni dei quali non si spiega nemmeno che si tratta di una pubblicità della serie televisiva, mischiando così i piani tra realtà e finzione. Inoltre la quinta serie avrà inizio con molta probabilità nel periodo dell’insediamento del/della futuro/a presidente degli Stati Uniti il prossimo anno; e ci si aspetta che cominci con il contestuale insediamento di Underwood.

Se quello che è accaduto nella quarta serie sembra poco plausibile, una first lady di un presidente mai veramente eletto che ricatta il marito per ottenere la nomina a vice-presidente (molto Lady Macbeth; d’altronde diversi critici hanno rilevato il debito dello show verso Shakespeare), cosa possiamo dire di Donald Trump o Hillary Clinton? Quanto sono plausibili le loro candidature? La serie sembra proprio essere un’ottima bussola di orientamento nei giochi di potere americani, basti pensare a cosa è ridotto il partito repubblicano di Will Conway, che si autodefinisce di base un democratico (ma d’altronde lo era anche Trump) e che pur di strappare la presidenza a Underwood è disposto ai più luridi compromessi.

Forse l’idealismo di Obama è superato; Trump è la risposta di coloro che si sono sentiti esclusi da un’America sempre più articolata e complessa e da certe scelte internazionali, in fondo poi non così differenti da politiche precedenti. Obama ha sicuramente dato un impulso diverso, almeno a parole, alla conduzione della politica estera, ma nei fatti è rimasto ancorato a modelli passati. Gli Stati Uniti sono ancora alla ricerca di una ridefinizione della propria identità ma anche di un nuovo ruolo, possibilmente determinante,  a livello internazionale. Quando lo giocano lo fanno secondo regole volta a volta diverse perché hanno perso da tempo il senso di una “Grand Strategy” e sono costretti in quello che Amitav Acharya definisce un “multiplex world”.

Bibliografia

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Serie TV

Americans, ideato da Joe Weisberg, FX, 2013-

Homeland, elaborato da Howard Gordon e Alex Gansa sulla serie israeliana Prisoners of War, ideata da Gideon Raff, Fox 21, 2011-

House of Cards, ideato da Beau Willimon, Netflix, 2013-

True Detective, ideato da Nic Pizzolato, HBO, 2014-

The Wire, ideato da David simon, HBO, 2002-2008.

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