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Liberalism and the Emergence of American Political Science. A Transatlantic Tale: Recensione di Michele Cento

Robert Adcock, Liberalism and the Emergence of American Political Science. A Transatlantic Tale, New York, Oxford University Press, 2014, pp. 300.

Recensione di Michele Cento

In Liberalism and the Emergence of American Political Science Robert Adcock non si limita a ricostruire le vicende parallele dello sviluppo della scienza politica e del liberalismo statunitensi. Un risultato, quest’ultimo, che in fondo era stato già centrato dal classico lavoro di Bernard Crick (1959), in cui, alla luce della lezione della storiografia del «consenso», lo studio della scienza politica americana veniva saldamente collocato all’interno della monolitica – o quantomeno spacciata per tale – cornice della tradizione liberale americana. Piuttosto, Adcock punta a esaminare l’itinerario intellettuale delle principali figure della scienza politica statunitense tra il XIX e l’inizio del XX secolo e di farne dei protagonisti attivi di un processo di ridefinizione della mappa concettuale del liberalismo. Scienza della politica e politica della scienza si intrecciano nella narrazione di Adcock, poiché le scelte metodologiche operate dagli scienziati politici finiscono inevitabilmente per incidere sull’articolazione e la trasformazione del modello liberale lungo linee difformi rispetto al paradigma del liberalismo classico fissato nel primo Ottocento. È la scienza della politica cioè a fornire al liberalismo categorie e strumenti di governo dei potenti processi di democratizzazione e industrializzazione che ridisegnano le società occidentali lungo tutto l’Ottocento.

Non a caso, sulla scorta dei lavori seminali di James Kloppenberg (1986) e Daniel T. Rodgers (1998), l’A. mette in luce come l’interazione tra scienza politica e liberalismo statunitensi ecceda la dimensione nazionale e si dispieghi invece a pieno su un piano transatlantico. Da qui la ragione del sottotitolo del volume: A Transatlantic Tale. In particolare, è con Rodgers che l’A. contrae il suo debito più cospicuo, come d’altra parte accade a tutti i più recenti studi sul liberalismo atlantico otto-novecentesco. Secondo l’A., è in quella che Rodgers definisce «comunità atlantica di discorso» che la scienza politica contribuisce a riformulare il liberalismo all’altezza delle trasformazioni politiche, economiche e sociali che si susseguono nella storia statunitense ed europea. In altri termini, l’A. recepisce l’indicazione di metodo suggerita da Rodgers in The Atlantic Crossings, dove si legge che nello studio della dottrina e della pratica liberale «i confini dello Stato-nazione costituiscono una gabbia analitica». Tuttavia, mentre Rodgers applica tale chiave interpretativa al liberalismo di orientamento riformista e progressista sviluppatosi a cavallo del Novecento, Adcock, da un lato, estende l’arco cronologico della sua analisi spingendosi indietro fino ai primi decenni dell’Ottocento e, dall’altro, mette in luce come dalla circolazione atlantica delle idee scaturiscano diverse formulazioni dell’ideologia liberale, non sempre emancipatesi dai dogmi del laissez-faire.

Tre sono le varianti poste sotto esame da Adcock: il «liberalismo classico democratico» (democratized classical liberalism), il «liberalismo progressista» (progressive liberalism) e il «liberalismo classico disincantato» (desenchanted classical liberalism). Tra i numerosi pregi del volume dobbiamo annoverare senz’altro la capacità di tessere una trama storiografica e narrativa che riesce brillantemente a tenere insieme tutte e tre le differenti tipologie di liberalismo. Ad affiorare per primo tra le pagine del libro è il «liberalismo classico democratico», che si afferma negli anni Trenta negli Stati Uniti grazie all’opera di Francis Lieber. Questi, tedesco emigrato negli Stati Uniti, rappresenta al meglio la natura transatlantica di tale specifica variante del liberalismo. Lieber riconosce l’irreversibilità del processo di democratizzazione in atto, facendo i conti con i timori suscitati dal suffragio universale e dalla sovranità popolare, di cui il liberalismo europeo affermatosi all’indomani della Restaurazione temeva le derive dispotiche esemplificate dalla parentesi giacobina. Lieber manda così in soffitta Constant, ma non la tradizione liberale europea. La scienza politica di Lieber si forma infatti a stretto contato con Alexis de Tocqueville, condividendo l’idea che «il faut una science politique nouvelle à une monde tout nouveau». A testare la conciliazione di liberalismo e democrazia concorre un ambiente intellettuale transatlantico che, oltre alle intuizioni di Tocqueville, si serve di uno storicismo a carattere progressivo sviluppatosi, sia pure lungo itinerari diversi, tra Francia, Germania e Inghilterra. La grande narrazione del francese François Guizot della civilisation europea, la «storia universale» su cui si soffermano filosofi e giuristi tedeschi, da Hegel a Bluntschli, la rappresentazione della modernità come moto «dallo status al contratto» illustrata dal britannico Henry Maine, disegnano complessivamente una concezione della storia umana come processo di estensione progressiva della libertà e dell’uguaglianza giuridica. Ed è su questo retroterra teorico che Lieber può impiantare una scienza politica liberale e al tempo stesso democratica, che, dopo la Guerra Civile e l’emancipazione degli schiavi neri, finisce per rappresentare il canone della disciplina negli Stati Uniti. A questa democratizzazione del liberalismo non segue però una messa in discussione dei principi del laissez-faire. All’interno della wide political science di Lieber c’è infatti posto per l’economia politica, che però si muove ancora sui binari di un rigido individualismo, pensato come unico antidoto per arrestare le involuzioni paternalistiche di uno Stato in cui la sovranità spetta al popolo.

Tuttavia, questo ultimo baluardo a difesa dell’economia politica classica finisce per cadere di fronte alle grandi trasformazioni sociali prodotte dall’industrializzazione. Queste ultime, con il carico di conflittualità operaia che le accompagnano, costringono, sostiene l’A., una nuova generazione di scienziati politici a mettere in discussione il laissez-faire. Decisivi sono in questo senso gli scambi intellettuali che da Francis A. Walker a Richard T. Ely e, ancora, a Edwin R. A. Seligman, gli economisti americani intrattengono con la scuola storica dell’economia tedesca, che nel 1872 ad Eisenach si era data un preciso programma epistemologico e politico dichiaratamente antimanchesteriano. È da questo scambio che affiora il progressive liberalism. A questo proposito, di sicuro interesse sono le pagine che l’A. dedica a Woodrow Wilson, scienziato politico di Princeton e futuro presidente degli Stati Uniti. È Wilson che più di ogni altro intravede il passaggio dal governo rappresentativo al governo dell’amministrazione come chiave di volta di una riformulazione complessiva del liberalismo: lungo questa via esso acquisisce gli strumenti operativi per rispondere efficacemente alle richieste di protezione sociale provenienti dalla classe operaia e, più in generale, per organizzare la produzione su un piano di razionalità alternativo al principio della concorrenza e alle sue derive monopolistiche. Se la scienza politica di matrice liberal-progressista si orienta verso il governo dell’amministrazione, in linea d’altra parte con il modello europeo continentale, su tutt’altro versante si posiziona la terza e ultima variante del liberalismo individuata dall’A.. Si tratta, come abbiamo già anticipato, dal disenchanted liberalism. A unirli vi è una comune matrice democratica, in quanto i «liberali disincantati» come Andrew Lawrence Lowell e William Graham Sumner non contestano la sovranità popolare, quanto piuttosto gli esiti «semisocialistici» che il governo della maggioranza implica. La critica all’estensione dei compiti dello Stato si sviluppa anch’essa su una direttrice transatlantica, giacché si innesta in quello scenario individualista riassumibile nella formula del britannico Herbert Spener, The Man vs. the State.

Visioni contrapposte, dunque, affiorano nel momento in cui il democratized classical liberalism deve confrontarsi con le trasformazioni connesse al processo di industrializzazione. Contrapposizioni che però si smussano quando, nel 1903, nasce l’American Political Science Association (APSA) con l’obiettivo di dare linee guida comuni alla disciplina. Due, non a caso, sono le aree su cui l’associazione indirizza l’attività di ricerca: l’amministrazione e i partiti. Nel primo caso, si tratta di individuare una forma specificamente americana di amministrazione, più elastica e sensibile alle istanze della società civile rispetto al modello tedesco; nel secondo, di mettere a fuoco il funzionamento proprio della democrazia americana che nel partito trova sia la realizzazione del governo dell’opinione pubblica, sia il suo potenziale sovvertimento ad opera della party machine e dei boss che la guidano. È evidente qui l’influenza di un altro celebre pensatore atlantico, James Bryce, che con The American Commonwealth fornisce agli studiosi statunitensi una nuova lente interpretativa per lo studio della politica: con Bryce la scienza politica si emancipa tanto dalla storia quanto dall’economia politica e diventa la scienza dei sistemi politici. E sarà proprio l’APSA ad alimentare questo nuovo paradigma disciplinare, determinando un’americanizzazione della scienza politica che costituisce d’altra parte l’elemento distintivo del suo fiorire mondiale nel corso del Novecento. Proprio in virtù della sua crescente specializzazione, la scienza politica si afferma nei primi decenni del Novecento americano come la scienza che dirige l’arte liberale di governo.

In definitiva, il volume di Adcock fornisce una lettura convincente dell’intricata trama di rapporti tra scienza politica e liberalismo. L’ottica transatlantica adottata dall’A. ne è il più efficace strumento interpretativo. Eppure, necessita di qualche accorgimento metodologico per evitare il rischio che si trasformi in una «gabbia analitica» simile all’angusto perimetro dello Stato-nazione. Il rischio è cioè quello di restringere la «comunità atlantica di discorso» ai circoli intellettuali americani, tedeschi, francesi e britannici, quando invece il processo di ridefinizione del liberalismo denota un’estensione geografica ben più ampia, se non altro perché i fenomeni con cui deve confrontarsi, l’industrializzazione e la democratizzazione, non risparmiano i territori, per così dire, «marginali». Per fare solo un esempio, alcune frange del liberalismo italiano – basti citare l’opera di Carlo F. Ferraris e Francesco S. Nitti – raccolgono le sfide politiche ed economiche della modernità con gli occhi rivolti al dibattito atlantico descritto da Adcock. Eppure, è difficile trovare traccia di questi nomi nelle narrazioni atlantiche del liberalismo Otto-novecentesco. Se non vogliamo «provincializzare» l’Atlantico, è bene comunque tenere a mente che gli influssi delle sue «correnti» si estendono ben al di là delle sue coste.

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