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Esci dall’aula! Perché oggi la politica teme la storia?

Di Fulvio Cammarano (Università di Bologna)

La questione dell’esclusione della traccia di storia per il tema d’italiano, proposta dalla Commissione per la riforma dell’esame di maturità, ha fatto emergere ancora una volta il problema, ormai evidente, della perdita di centralità della storia nella società contemporanea. Si tratta di una sorta di declassamento che sta avvenendo sia nell’ambito educativo, sia in quello più generale della formazione culturale della classe dirigente e che però, di fatto, sembra decisamente in contrasto con la domanda di storia che proviene da una parte consistente dell’opinione pubblica. Si tratta di una “richiesta” a cui fanno fronte, spesso con risposte di buona qualità, la programmazione televisiva, in particolar modo quella della Rai, e la produzione editoriale ma che è anche oggetto di numerosi eventi – festival, premiazioni, convegni – molto partecipati. Se dunque da una parte la storia suscita interesse negli strati più vasti della popolazione, dall’altra continua a ricevere dalle istituzioni, scolastiche e non, numerosi segnali negativi. Sembra dunque esserci una discrasia tra la storia come sapere, memoria, conoscenza del passato e la storia come disciplina indispensabile per la formazione della sfera pubblica. Ad una crescita dell’interesse pubblico per la storia, fa da contraltare la riduzione delle ore d’insegnamento della materia negli istituti professionali, il drastico calo delle cattedre nelle università italiane, la “scomparsa” della traccia storica, ecc

Che succede? In atto sembra esserci un tentativo di marginalizzare la storia nell’ambito della cultura della memoria, dell’erudizione gradevole, dell’intrattenimento colto, insomma nella sfera degli interessi individuali per lo più coltivati dalle generazioni meno giovani. Se invece andiamo ad osservare l’ambito del ruolo “politico” della storia ci accorgiamo che tira tutta un’altra aria. Non solo per quanto riguarda le istituzioni educative, ma anche nella percezione dell’importanza della storia nella costruzione dell’ambiente pubblico. Lo rivela, ad esempio, in ambito televisivo, il tic di definire politologi gli storici a riprova della maggiore credibilità di una qualifica che allude alle scienze sociali, l’assenza degli storici nei comitati di esperti dei ministeri,

Una parte del declino della centralità della storia a livello istituzionale deve di sicuro essere attribuita agli storici e alla loro incapacità di far fronte a sfide nuove di una società in trasformazione. Alla loro scarsa capacità di proporsi come consapevole e compatto gruppo di pressione in grado di impedire scelte improvvide a danno della ricerca storica e del suo insegnamento. Tuttavia il fatto che tale declino politico-istituzionale non sia un fenomeno solo italiano rappresenta un spia che ci indica come il problema abbia motivazioni ben più profonde di quelle che rinviano agli errori degli storici.

E’ impossibile non riferire una parte di un simile declassamento all’attuale fase storica in cui ha prevalso un sistema di valori che fa del mercato la principale unità di misura in tutti gli ambiti della sfera pubblica. Il dominio incontrastato di una cultura basata sull’aziendalismo e sulla resa economica di ogni tipo di produzione materiale e intellettuale non poteva non lasciare un segno sul modo di intendere il ruolo della storia. Un tempo regina incontrastata nei processi di formazione della classe dirigente e in quelli dell’elaborazione intellettuale di gran parte delle scienze sociali, la storia appare oggi una sorta di competenza secondaria, connessa all’erudizione e allo studio di eventi passati e dunque sostanzialmente inutili. Individuando uno dei fattori della crisi del sistema politico italiano nella mancanza di una classe dirigente, Piero Gobetti invocava una nuova «generazione di storici», proprio per evitare che la politica fosse ridotta a cronaca, cioè amministrazione di un presente privo di futuro. D’altronde, sino agli ’70 e ’80 del XX secolo gli intellettuali e in particolare gli scienziati sociali erano debitori verso la conoscenza storica senza la quale le loro analisi sarebbero apparse prive di efficacia. Si pensi a Marx, Mosca, Weber, Keynes, Schumpeter, solo per fare pochissimi nomi, per realizzare la distanza in termini di cultura storica da economisti, sociologi e politologi delle ultime generazioni. Ma anche guardando alla classe politica, per tutto il XIX e gran parte del XX secolo non sarebbe stato possibile esercitare una vera leadership politica senza il possesso di una solida cultura storica: da Gladstone a Cavour, da Thiers a Bismarck, da De Gasperi a Togliatti, da De Gaulle a Brandt e si potrebbe continuare a lungo. Una verità talmente radicata nel sentire comune che il maggior pedagogista italiano dell’800, Aristide Gabelli, ha potuto affermare che “quando gli uomini di Stato non sanno la storia è come se tutto un popolo fosse senza passato”. La crisi della ragione storica intesa come razionalità “positivista” seguita alla fine della guerra fredda ha messo in moto una reazione che ha condotto le scienze sociali a prendere le distanze dalla storia e dalla sua complessità, a specializzarsi – ritagliandosi settori sempre più ristretti di competenze tecniche – e dunque a isolarsi, scegliendo la strada della de-contestualizzazione dei problemi del presente. E’ questo il contesto entro cui si è affermato un sistema di riflessione sulla crisi, a cui gli intellettuali sono tradizionalmente chiamati, tutto incentrato sulla semplificazione delle proposte di soluzione dei problemi sociali. Si tratta d’altronde di una cultura del tutto coerente con la crescita esponenziale del ruolo dell’esecutivo nelle società contemporanee a detrimento di quello del parlamento, simbolo istituzionale ormai decaduto della riflessione e dell’approfondimento dei problemi di una società in funzione di una loro soluzione. Si è così assistito ad un’estensione dell’impegno delle “scienze sociali”, soprattutto di alcune di esse, nel produrre “leggi” predittive che – dovendo seguire tempi e ritmi della frammentata e sincopata trasformazione sociale, in atto dagli anni ’70  sulla base della crescente insofferenza nei confronti della laboriosa e burocratica cultura del welfare – risultano sganciate da una più vasta riflessione sul contesto storico. Per attaccare il pilastro culturale del welfare impostosi soprattutto dopo i disastri di due guerre mondiali era necessario avviare un immaginario di presentificazione incentrato sull’artificioso conflitto tra sfera pubblica e potenzialità individuali.

La storia è, quindi, lentamente diventata una disciplina priva di valore sociale in quanto poco funzionale alle esigenze di una società  alla ricerca di semplificazioni concettuali. L’apparente statuto disciplinare aperto, spesso collegato ai processi della memoria, alla forma narrativa letteraria, rende la storia un ambito in cui la ricerca rigorosa può facilmente essere sostituita da una babele fatta di opinioni non argomentate, generalizzazioni, aneddoti, impressioni. La storia non rincorre lo statuto di “scienza” proprio per meglio aderire alla complessità del reale, alle sue contingenze imprevedibili. Non si tratta naturalmente di ritornare alla storia positivista, ma di valorizzare la storia come bagaglio culturale e come metodo per avvicinarsi a una realtà sempre più complessa e sfuggente. Né si tratta di vagheggiare dei Re-storici che governino la “polis” al posto dei vecchi Re-filosofi, che però oggi sono i Re-economisti senza storia. Il punto è piuttosto quello di tornare a riflettere su quale sia oggi il ruolo pubblico della storia.

Il testo è una versione leggermente rivista dell’articolo pubblicato, a novembre 2018, nel numero 29 della rivista “Non mollare”.

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