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Pandemie e governo dell’emergenza sanitaria

Intervista di Salvatore Botta a Eugenia Tognotti

La storia dell’umanità è scandita da pandemie che, in termini di mortalità, hanno prodotto effetti più devastanti delle guerre. Il Covid-19 rappresenta solo l’ultimo caso in ordine di tempo tra i contagi che nel corso dei secoli (dalla peste al colera, passando per la spagnola) hanno segnato un fattore regressivo o progressivo di cambiamento. Le pandemie hanno contribuito a plasmare la storia sia in termini sociali che politici, costringendo le istituzioni pubbliche a sperimentare e ridefinire il proprio ruolo nell’emergenza. Lo Stato si trova improvvisamente a misurarsi con un fattore esogeno di crisi e quindi a ripensare le proprie strategie di governo. La comunità, con le proprie dinamiche consolidate in ambito economico e sociale, viene messa in «fibrillazione» e in discussione. Gli scienziati, con le proprie competenze ed esperienze, sono chiamati a dare risposte alle paure e alle aspettative della popolazione, interagendo con una classe politica che, nel contesto della modernità, deve trovare «la quadra» per conciliare i principi della democrazia con il «decisionismo» dettato dall’emergenza sanitaria. Per meglio comprendere la complessità di questo scenario chiediamo aiuto alla prof.ssa Eugenia Tognotti, docente di Storia della medicina presso ‘l’Università di Sassari, che si è resa disponibile a rispondere ad alcune nostre domande.

1) Alla luce dei suoi studi quali affinità e differenze si possono riscontrare tra le epidemie che hanno scandito la storia globale, ma più in particolare quella italiana, tra XIX secolo e il XXI?

Ragionando di ‘affinità’ tra le grandi epidemie/pandemie del passato – comparabili solo in parte –  occorre ricordare, da una parte, la pressione esercitata sulle società in cui si diffondevano, il rafforzamento degli equilibri di potere l’estensione e l’aggravamento delle disuguaglianze di classe, di genere, fra etnie, e classi di età. 

Le risposte all’emergenza comportavano un accentramento dei poteri, la messa in campo di obblighi e divieti, l’implementazione delle tradizionali misure di contenimento: cordoni sanitari terrestri e marittimi (secondo i casi), quarantene, isolamento nei lazzaretti o in locali di fortuna. Tutto ciò richiedeva la creazione di Magistrature di sanità e di Uffici d’igiene e una pronta mobilitazione dell’apparato repressivo di uno Stato sempre più interventista per assicurare l’adesione alle misure fissate dalle autorità sanitarie, per bloccare i movimenti di uomini e merci, per impedire la violazione delle quarantene, la fuga degli infetti dai luoghi investiti dal morbo. A fare da sfondo a tutte le epidemie, dalla peste al covid -19, la ‘paura’ che lo storico francese Jean Delumeau definisce «la componente maggiore dell’esperienza umana». Paura dell’aggressione della morte; della possibilità delle tumulazioni in fosse comuni, che escludevano le ‘cerimonie degli addii’, i riti della preghiera e del pianto; paura del ‘contagio’ (dal latino tactumcontingo ecc.) in cui si mescolano i concetti di ‘diffusione’, ‘epidemia’, ‘trasmissione’, contaminazione; e, quindi, la considerazione dell’’altro’ come minaccia. Altri elementi comuni, direttamente o indirettamente legati alla paura, sono  i comportamenti emotivi e irrazionali delle masse; le teorie del complotto; la caccia agli untori che, ancora in pieno XIX secolo, durante la prima epidemia di colera in Italia, nel 1835-36, provocò, in particolare in Sicilia, decine di morti tra i sospettati di diffondere la ‘polverella’ del colera – in genere forestieri,  individui non integrati nelle comunità e, in alcuni periodi e luoghi, le stesse  autorità interessate a fare piazza pulita dei poveri. Dalla peste al Covid-19, passando per la Sars (2003) e l’Influenza suina (2009) (chiamata poi, in omaggio al politically correct, Influenza A) la ricerca di un capro espiatorio è stata una costante, nei vari contesti e nelle varie epoche. Nel 2009, l’allarme per l’Influenza suina – il cui primo focolaio era stato scoperto in Messico –   fece diventare questo paese il capro espiatorio, provocando una vera e propria persecuzione ne nei confronti dei messicani, che richiamava scene da medioevo: i dirigenti sportivi di vari paesi rifiutarono di ospitare squadre di calcio messicane. In Cina, le autorità costrinsero cittadini residenti e viaggiatori in buona salute a sottoporsi a una quarantena. Dozzine di individui apparentemente sani furono confinati dalle autorità cinesi negli hotel e negli ospedali, giungendo persino a scortare alcuni di loro nel cuore della notte a sottoporsi a visita, secondo la denuncia del consolato. Quattro nazioni dell’America Latina – Argentina, Perù, Ecuador e Cuba – sospesero i voli dal Messico in risposta allo scoppio dell’influenza.  A distanza di poco più di dieci anni, l’irruzione del Covid-19 ha portato a individuare nella comunità cinese il capro espiatorio della pandemia (come era avvenuto per la Sars): cosa che ha spinto, in qualche realtà, fenomeni di sinofobia all’origine di una certa resistenza psicologica nei confronti dei cinesi e delle loro tradizionali attività (ristorazione, bar).

Le differenze sono legate alle risposte istituzionali e al modo di spiegare i flagelli epidemici: nel medioevo una punizione divina per i peccati dell’umanità o l’effetto di una nefasta congiunzione astrale che ancora durante la peste del XVII secolo – come racconta Manzoni nei Promessi Sposi – è chiamata in causa da don Ferrante, convinto della funesta influenza della congiunzione di Giovee Saturno. Diverso è anche l’impatto demografico. La prima epidemia di colera dell’Italia post-unitaria, per fare un solo esempio, provocò 160 mila morti (1865-67), quella del 1893, grazie al progresso delle conoscenze e alle misure di salute pubblica, 4270. Ma l’influenza spagnola del 1918-19 fece in Italia circa 600 mila vittime e contribuì con la guerra a far calare notevolmente l’aspettativa di vita dell’inizio del XX secolo: nel primo anno dal diffondersi della pandemia, risultava diminuita di circa 12 anni.Stando alle prime stime, l’impatto della prima ondata di Covid-19 sulla speranza di vita – limitatamente alle cinque province più colpite – Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi e Piacenza – e nell’intera regione Lombardia è stato considerevole. Nella provincia diBergamo, la più colpita, l’aspettativa di vita nel 2020, secondo le prime stime si sarebbe ridotta di 3,6 anni per gli uomini e di 2,5 anni per le donne rispetto alla media 2015-2017.

2) Quale ruolo ha avuto storicamente la «globalizzazione» sulla diffusione e gestione delle pandemie?

Epidemie e pandemie hanno preceduto di secoli l’era della globalizzazione. Dalla peste al Covid-19, passando per le diverse ondate epidemiche di colera nel XIX secolo, fino alla prima pandemia d’influenza, la Spagnola, hanno segnato la storia delle società umane dall’Atene classica all’Europa moderna e contemporanea, secoli prima dell’era della globalizzazione che, naturalmente, ha un ruolo determinante nella diffusione delle crisi epidemiche, data la velocità di circolazione degli agenti patogeni, che, oggi, nell’arco di 24 ore, possono raggiungere qualsiasi punto del pianeta. Nel Medioevo il batterio Yersinia pestis viaggiava alla velocità dei mezzi del tempo: la cosiddetta peste nera colpì il mondo conosciuto a partire dal 1346 e si diffuse in quattro anni, causando la morte di circa 20 milioni di persone, un terzo della popolazione europea dell’epoca, secondo le stime più caute. L’influenza spagnola impiegò circa due anni, dal 1918 al 1921, per raggiungere ogni angolo della terra, comprese alcune sperdute isole dell’Oceano Pacifico. Il nuovo coronavirus ha fatto la sua comparsa nel dicembre 2019, nella città cinese di Wuhan e, a tre mesi dalla sua entrata in scena, la presenza di Covid-19, era già documentata in 37 paesi. Se la circolazione di uomini, merci, animals, plants and other goods across the globe, throughanimali e piante – anche attraverso il international trade for example, poses new challenges for publiccommercio internazionale – aiuta la diffusione delle epidemie, la globalizzazione ha creato però le condizioni per un accordo tra i Paesi membri dell’Organizzazione mondiale della Sanità (194) – codificato nel Regolamento Sanitario Internazionale (IHR) – per gestire le epidemie globali, combattute con la stessa strategia di base: sorveglianza, interruzione delle catene di infezione e aumento della capacità di prevenzione e cura. A cui si aggiungono il progresso delle conoscenze, le innovazioni tecnologiche e la cooperazione economica globale. Grazie alla possibilità di condividere quasi in tempo reale – come sta avvenendo in questa pandemia – i dati emersi e i risultati delle ricerche effettuate da scienziati di diversi paesi, i progressi nel sequenziamento genetico hanno permesso di rintracciare e monitorare la pandemia di COVID-19, più rapidamente di qualsiasi crisi sanitaria del passato, compresa la Sars. Erano stati allora (2003) necessari alcuni mesi per condividere l’intera composizione genetica del virus, parente stretto di Sars-CoV-2. A dimostrazione del fatto che la globalizzazione – chiamata in causa dai movimenti che ne contestano gli effetti –  ha un’altra faccia e può fornire tutti gli strumenti a disposizione per combattere il virus, a partire dalla diffusione di informazione corretta e tempestiva. C’è da dire che mai come in questa emergenza pandemica, il virus dell’anti globalizzazione ha avuto tanto spazio, prendendo corpo nelle immagini dei confini blindati, degli aerei a terra, degli aeroporti chiusi, dell’autoisolamento.  Per comprendere che deposito hanno lasciato i timori dei no global, ‘legittimati’ dalla crisi pandemica, occorrerà però attendere la fine della pandemia.

3) In tema di relazioni sociali la gestione della «paura» come influiscono sulla «percezione dell’emergenza» e nella ricerca di un «capro espiatorio»?

Nel marzo del 2020, in piena emergenza pandemica, i giornali hanno pubblicato le foto di una lunga fila di camion dell’esercito che di notte lasciavano Bergamo – una delle città più martoriate della Lombardia – trasportando le bare delle vittime di Covid-19. La paura e l’angoscia provocate da quelle immagini sono le stesse che hanno accompagnato le grandi epidemie del passato che comportavano una misura massimamente temuta dalle comunità: la sepoltura nelle fosse comuni, la cremazione, la cancellazione delle cerimonie religiose e dei tradizionali rituali della preghiera e del pianto. Covid-19 ha dato corpo al fantasma di una malattia breve e di una morte repentina. Sempre più rara, ai nostri giorni, grazie al progresso della medicina e dei mezzi diagnostici e tecnologici che hanno modificato la cronologia della morte che si è spostata sempre più avanti negli anni e sopraggiunge al rallentatore, per malattie croniche e degenerative che lasciano il tempo, nella loro lenta evoluzione, di accomiatarsi dal mondo.

Allontanata dal pensiero e censurata nei discorsi, nascosta negli ospedali, la morte ha fatto irruzione nel nostro quotidiano, attraverso i numeri dei casi e dei decessi, in continua escalation, che hanno riempito i media, irrompendo su tutte le reti, rimbalzando nelle nostre case, mostrandoci il “come” delle morti in terapia intensiva – circondati da fantasmi in tuta e mascherina, in solitudine –  e, infine, l’esilio da cimiteri della città.  

4) Alla luce anche dell’esperienza covid-19 quale il rapporto tra comunità scientifica e «fake news»?

 COVID-19 – ha scritto qualcuno – è “la tempesta perfetta per la diffusione di voci false e fake news” che hanno conosciuto una escalation, in uno tsunami di informazioni definita dall’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) «infodemia», che ha reso difficile distinguere tra fonti credibili e affidabili e teorie prive di fondamento scientifico. Dal momento delle prime avvisaglie dell’emergenza sanitaria del Covid-19, un evento inaspettato, sconvolgente , extra-ordinario – la comunità scientifica ha ingaggiato un duro corpo a corpo contro le fake news: niente poteva essere  più pericoloso dei loro effetti distorsivi  capaci di  spingere verso comportamenti sbagliati e scelte in contrasto con le misure sanitarie adottate per combattere il virus, facendo ricorso a rimedi e farmaci inefficaci o addirittura dannosi, ignorando obblighi e divieti o rifiutando – come annunciano gruppi di No-vax – il vaccino contro il coronavirus quando esso sarà disponibile. Scelta basata su una informazione che si è diffusa on line con la velocità del vento. Stando a questa voce – che dagli Stati Uniti è arrivata in Italia – sarebbe stato Bill Gates a brevettare i vaccini, mentre un’altra teoria sostiene che attraverso di essi Gates preveda di usare un vaccino contro il coronavirus come stratagemma per monitorare le persone, iniettando loro un microchip e attraverso un software spia (per tenerle sotto controllo). A diffondere il messaggio, gruppi di varia ispirazione, dagli oppositori ai vaccini ai no global ai nemici della tecnologia che permetterebbe le violazioni della privacy.

Durante il lockdown, la fiducia nella scienza e negli ‘esperti’ (virologi, epidemiologi, infettivologi, immunologi, studiosi di modelli matematici sulla diffusione del virus, ecc.) è servita in qualche misura a contrastare il dilagare di fake news e false informazioni, anche ridimensionando un fenomeno cresciuto, in questi ultimi anni, insieme alle teorie complottiste: un dato allarmante, specie nel campo della salute, tanto da indurre il  Ministero a finanziare qualche tempo fa un progetto di ricerca, Impatto delle Fake News in ambito sanitario, per appurare quali false notizie fossero a maggior rischio di condivisione e percezione di veridicità. I risultati hanno fatto emergere due aspetti: la loro enorme potenza virale – specialmente sui vaccini; e il fatto che per tutte le tipologie, era irrilevante che la notizia fosse indicata come falsa: dal momento in cui comincia a diffondersi a macchia d’olio, diventa virale, e i cittadini perdono la capacità di distinguere. Anche le persone avvertite che si trattava di fake news, iniziavano a ritenerle meritevoli di condivisione, rispondendo più con la pancia che con la testa. Cosa che solitamente spinge le persone a non abbandonare quello in cui credono di fronte a prove contrarie, ma a manipolare i fatti e gli argomenti per conciliare le contraddizioni. Se la fiducia negli esperti è valsa, in qualche misura, a creare un argine alle fake news, le divisioni della comunità scientifica, in queste ultime settimane, hanno contribuito in diversi modi, ad alimentare  informazioni false o distorte, divulgare sui Social dei ‘partigiani’ delle tesi – ottimiste,  pessimiste, prudenti – su cui si scontrano virologi, infettivologi, pneumologi, divisi su nodi cruciali: la minore o maggiore aggressività del virus; la necessità di osservare le cautele circa il distanziamento; la possibilità che gli asintomatici possano infettare o meno; l’arrivo di una seconda ondata. Divulgati dai media, i  risultati, ancora provvisori, di lavori preliminari non ancora sottoposti a peer review – una prassi affermatasi durante questa pandemia hanno contribuito a portare acqua al mulino delle fake news.

5) Quale la sua opinione in merito all’evoluzione degli strumenti messi in campo dalle istituzioni pubbliche davanti alle emergenze sanitarie?

Penso che in assenza di un vaccino mirato e di farmaci, gli interventi preventivi ‘non farmaceutici’ contro emergenze sanitarie quali Covid-19 siano una scelta obbligata, includendo anche assistenza sanitaria e informazione al pubblico. A partire dal XIV secolo, quando il comandante del porto di Ragusa (oggi Dubrovnik) stabilì, per fronteggiare la peste, un periodo di 30 giorni di isolamento per le navi – poi di 40 giorni per i viaggiatori via terra – il sistema delle misure di salute pubblica è stato adottato nei porti del Mediterraneo e si è evoluto nei secoli intorno a due capisaldi: isolamento (nei lazzaretti) e quarantena, dalla parola ‘quaranta’, il numero dei giorni legato all’osservazione, derivante dalla medicina antica, che “dopo quaranta giorni, le persone colpite dalla peste morivano o guarivano senza pericolo di  diffusione della malattia”. Il sistema si è evoluto nel corso dei secoli, in risposta a varie epidemie, ed è stato messo in campo anche durante l’Ottocento contro il colera, la febbre gialla, la Spagnola, la Sars, l’emergenza della sindrome respiratoria acuta grave (SARS). Di fronte alla minaccia, cresciuta con la globalizzazione, delle malattie trasmissibili, è stato messo in campo un nuovo sistema di sorveglianza con alcune delle tradizionali misure (quarantena, isolamento), a cui si sono aggiunti attività di monitoraggio, regolamentazione, distanziamento sociale, ecc.  Si tratta, naturalmente, di misure che implicano danni per l’economia e, in diversi contesti e nelle diverse emergenze, un forte interventismo dello Stato nonché la limitazione delle libertà dei cittadini (sia pure in nome di un bene superiore come quello della salute). Nel passato, alcune misure come la quarantena erano considerate con sospetto e contestate, tanto da provocare proteste e tumulti nelle città.

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