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Briganti di Netflix: il brigantaggio fantasy di cui non avevamo bisogno

Di Christopher Calefati (Università di Pavia)

Misteriose mappe, lingotti d’oro, cacce al tesoro e sparatorie. Questi sarebbero degli elementi perfetti per la realizzazione di un cult Western o di un film piratesco che sappiano rappresentare sullo schermo l’immaginario collettivo di figure ricche di fascino e appeal emotivo. Il 23 aprile Neflix ha lanciato la serie Briganti sulla piattaforma di streaming online, prefigurando la diffusione di una nuova “rebel wave” che racconti il dramma degli oppressi attraverso un nuovo punto di vista. La serie è composta da sei episodi e realizzata con il contributo del Ministero della Cultura, l’Apulia Film Commission e la Regione Puglia. L’obbiettivo degli autori è narrare le vicende del brigantaggio post-unitario, mettendo in risalto la lotta degli ultimi per la libertà persa a causa della presunta invasione piemontese del Mezzogiorno. In effetti, il prodotto mediatico risulta essere il frutto di un vero e proprio cortocircuito storico, con una rappresentazione fittizia e irreale del banditismo meridionale.

Al centro delle vicende mostrate vi è la “rinnegata” Filomena, donna della borghesia meridionale intrappolata in un matrimonio violento e volenterosa di giustizia per lei e per il popolo meridionale oppresso dall’esercito sabaudo in seguito all’Unità che si dà alla macchia, divenendo un componente della famigerata banda Monaco. La neo-brigantessa incontra una serie di figure realmente esistite, come Michelina De Cesare e Ciccilla (Maria Oliviero), il cui ruolo è radicalmente ribaltato e plasmato attraverso canoni interpretativi della contemporaneità. Dunque, la strategia dei produttori è basata su uno spostamento forzato dell’Ottocento ai giorni nostri, provocando un vero e proprio dissesto storiografico. Infatti, le recenti pubblicazioni sulla guerra al brigantaggio e sulla figura del brigante, come i lavori di Carmine Pinto e Giulio Tatasciore, sono totalmente sostituite da una narrazione astorica, risultato di un mélange tra posizioni reazionarie-borboniche e interpretazioni provenienti dal “bandito sociale” a tinte socialiste.

In un susseguirsi di tradimenti, lotte intestine e sospetti le figure dei briganti restano legate alla lotta partigiana antipiemontese, il cui obbiettivo è liberare il popolo meridionale dai soprusi degli invasori, capeggiati dal Colonnello Pietro Fumel, il quale incarna tutti gli stereotipi, comportamentali e visuali, del malvagio antagonista. Pertanto, una parte consistente degli episodi è dedicata a scene riguardanti fucilazioni e massacri di massa a opera dei soldati “sabaudi”, anch’essi raffigurati come sadici, violenti e nemici del popolo. La proposizione di sequenze dal forte impatto emotivo facilita la comunicazione del messaggio di rivendica da parte delle bande meridionali. Inoltre, le brigantesse sono poste a capo dei movimenti di liberazione, decostruendo nella totalità il ruolo più o meno marginale, delle figure femminili all’interno della società brigantesca, caratterizzata da una spiccata gerarchia virile. Anche in questo caso, la volontà di fornire un’interpretazione contemporanea di un fenomeno lontano quasi due secoli prevale sulle riflessioni fornite dalla ricerca storica sulla partecipazione femminile alla guerra nel Mezzogiorno. Attraverso un ulteriore processo di mixology, le brigantesse sono rappresentate come sacerdotesse della libertà e custodi della religione degli oppressi: l’elogio funebre dei briganti morti, seguendo delle ritualità tipiche del paganesimo e lontanissime dalle pratiche della società meridionale ottocentesca, contribuiscono notevolmente all’impronta emotiva della narrazione.

Eccidi e soprusi sono affiancati da un’altra tematica centrale nelle narrazioni revisioniste-neoborboniche e prontamente riproposta nella serie: la spoliazione delle ricchezze del Sud. La caccia a un fantomatico tesoro sottratto dai garibaldini al Banco di Palermo funge da canovaccio per lo svolgimento della storia: la restituzione dell’oro al popolo rappresenta l’obbiettivo principale delle brigantesse, rappresentate altresì come dei soggetti incorruttibili. A tal proposito, la costruzione di un brigantaggio immaginato è sviluppata attraverso la riproposizione mediatica di una società meridionale idilliaca: canti, balli e romanticismo sono alla base delle comunità di banditi. In effetti, la violenza della società brigantesca è posta ai margini della vicenda, rappresentata come una conseguenza diretta della “corruzione morale” portata dagli invasori nel Mezzogiorno. Il paradigma della purezza del Sud è altresì visibile nella contrapposizione tra il grigiore dei borghi occupati dall’esercito piemontese e i colorati siti degli accampamenti delle bande.

La nuova serie Neflix conferma la resilienza del fascino brigantesco negli immaginari collettivi, nonostante le numerose interpretazioni storiografiche che hanno smentito l’impianto mitografico dei fuorilegge. La complessità della ricerca incontra nuovamente numerosi ostacoli sulla via del public engagement: la necessità di raffigurare il bandito gentildonna o gentiluomo offusca ogni tentativo di dialogo tra storiografia e circuiti mediatici. Gli Outlaw Heroes conquistano il pubblico e radicalizzano l’immagine di un brigante meridionale che lotta contro le oppressioni per liberare il popolo dalla tirannia. Ciò è essenzialmente la divulgazione dell’untold history e del paradigma vittimario prelevato dal revisionismo novecentesco. In effetti, nella serie sono ben rintracciabili numerosi elementi comunicativi provenienti dall’impostazione martirologica del brigante: una figura eroica votata alla causa che darebbe la vita per la salvezza degli ultimi.

In conclusione, questa serie rappresenta l’ennesima occasione persa dai produttori di media per instaurare un rapporto di reciproca collaborazione con i saperi esperti. La preferenza per il trend criminale pone nuovamente il dibattito storiografico lontano dall’opinione pubblica, sempre più pervasa da teorie complottistiche che trovano una risposta nell’immaginario fantasy del passato. L’esperienza di Netflix testimonia, quindi, la sopravvivenza delle idee revisioniste che, nonostante la mole di ricerche e studi seri, ricompare nei prodotti mediatici di consumo mainstream.

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