Francesco Frizzera Museo Storico Italiano della Guerra
Storia e memoria: genesi di una mostra
Il Museo Storico Italiano della Guerra dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso è divenuto istituto di conservazione di memorie, diari, epistolari, testimonianze personali, quale attore centrale di un movimento storiografico che ha visto riservare sempre più rilievo interpretativo – con lo sviluppo delle necessarie precauzioni metodologiche – alle scritture popolari dal basso. Un processo di dimensione nazionale, che ha portato alla creazione di rilevanti archivi di memorie (Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano; Archivio Ligure della Scrittura Popolare, Archivio della scrittura popolare presso la Fondazione Museo Storico del Trentino e, appunto, l’archivio del Museo Storico Italiano della Guerra).
Il pervenire costante di donazioni di tali corpora archivistici ha fatto sì che nel corso degli anni venissero incamerati nell’archivio del Museo due fondi di persona, i cui soggetti produttori si caratterizzavano per aver partecipato alla campagna d’Indocina (1945-1954) combattendo nella Legione straniera francese. La circostanza, quantitativamente poco rilevante rispetto alle ben più corpose raccolte di materiale biografico e di ego-documenti legati al primo conflitto mondiale, esperienze coloniali ed esperienze di guerra e prigionia durante la seconda guerra mondiale, aveva attirato l’attenzione – al punto che una delle due memorie, redatta dal legionario Bensi, aveva trovate edizione critica – senza tuttavia che si immaginasse un progetto organico di raccolta, conservazione e valorizzazione di testimonianze legate a tale esperienza, ritenuta episodica.
Nel 2022 il Museo è stato contattato dal giornalista Luca Fregona, caporedattore del quotidiano locale Alto Adige, che aveva da poco pubblicato un volume sul tema (“Soldati di sventura”), frutto di un lavoro di ricerca basato su interviste, cominciato casualmente anni prima. Fregona si era imbattuto nei legionari d’Indocina quasi per caso quando, alla fine degli anni ’90, aveva conosciuto Beniamino Leoni, bolzanino d’origine trentina, che aveva combattuto nove anni di Vietnam, dal 1946 al 1955, prima con la Legione straniera e poi, sul fronte opposto, con il movimento di liberazione nazionale del Viet Minh. In precedenza Leoni aveva vissuto la prigionia in Germania, l’adesione alla RSI, l’esperienza di partigiano, la miniera in Francia. Fregona aveva quindi iniziato a informarsi, individuando sul tema memorialistica o aneddotica spesso di stampo neofascista, che tendeva a rappresentare la Legione attraverso stereotipi. Leoni morì nel 2001, poco dopo essere stato registrato e trascritto. Alcuni anni dopo Fregona conobbe Guglielmo Altadonna, fratello di Rudi, caduto a 24 anni a Dien Bien Phu, la battaglia che segnò la sconfitta della Francia nell’area e divenne depositario dell’album fotografico e dell’epistolario di questo secondo legionario. Infine, conobbe Emil Stocker, un meranese che aveva combattuto quattro anni in Vietnam, sopravvissuto a Ðiện Biên Phủ e tornato con mille foto scattate tra il Tonchino ed Hanoi, fino alla partenza dell’ultimo contingente nel giugno 1955 in virtù degli accordi di Ginevra. Dopo aver raccolto le vicende di questi tre testimoni nel volume Soldati di sventura, edito per i tipi di Athesia nel 2021, Fregona viene contattato da numerosi familiari di ex legionari che, in diversi casi, non sapevano che fine avessero fatto i loro cari, dispersi da quasi 70 anni. Altri invece volevano sapere cosa avevano vissuto in Indocina perché, al loro ritorno, padri e nonni avevano tenuto il riserbo su tale esperienza. Essendo divenuto in ragione di questo interesse il depositario – implicito o esplicito – di numerosi album fotografici, epistolari, raccolte di cartoline, memoriali, tali da rappresentare una testimonianza preziosa di una generazione, Fregona ha quindi preso contatto con il Museo, immaginando che l’istituto roveretano potesse svolgere, in ragione delle proprie prerogative istituzionali, la funzione di collettore e ente deputato alla conservazione e valorizzazione nel tempo di tali memorie.
Il Museo ha accettato e stimolato tale proposta, al fine di non disperdere tali esperienze, nella consapevolezza che tale operazione rientrava nella mission dell’istituzione. Data la natura dei materiali e la loro dimensione quantitativa, si è poi concordato con Fregona di calendarizzare un primo momento di restituzione pubblica di tale vicenda, attraverso una mostra fotografica di dimensione e impatto contenuto, che potesse valorizzare i fondi fotografici di maggior rilievo. Contestualmente si è avviata una collaborazione con l’Università degli studi di Trento, che prevedeva la possibilità di mettere a disposizione tali materiali biografici ai fini di un progetto di ricerca finanziato su fondi PRIN, dal titolo Returning Foreign Fighters (ReFF). The Demobilisation of Italian Transnational War Volunteers, 1860s-1970s, che si conduce in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e all’Università Ca’ Foscari di Venezia. In linea e in continuità con altre iniziative analoghe, il Museo ha dichiarato a mezzo stampa e sui propri canali istituzionali nel dicembre 2023 che si proponeva l’obiettivo di realizzare una mostra sulla vicenda dei legionari italiani in Indocina e che avrebbe raccolto testimonianze orali, scritte o fotografiche a tal fine, attivando un circoscritto progetto di crowdsourcing.
Il risultato di tale sommatoria di azioni minute ha portato il Museo ad incamerare, in pochissimi mesi, le testimonianze, epistolari, beni materiali minuti e album fotografici di 18 testimoni degli eventi, che si sommavano ai 2 già presenti in archivio, risvegliando un sottobosco sopito di vicende personali e familiari che attendevano di essere raccontate e che non erano venute alla luce fino a tempi recenti – fatti salvi un paio di casi – in ragione dei caratteri specifici della vicenda: il mito della Legione, la dimensione estremamente violenta ed efferata del conflitto, la reticenza dei testimoni a raccontarlo, il silenzio pubblico che lo caratterizzava, le fratture familiari e psicologiche, contrappesate dal bisogno di figli e parenti di veder riconosciuta la vicenda di questi sconfitti, sul campo e socialmente, che al contempo erano stati perpetrators/carnefici.
La campagna di raccolta di testimonianze, facilitata dai contatti già intessi da Fregona, ha fatto sì che la dimensione quantitativa del fenomeno acquisisse in pochi mesi contorni difficilmente gestibili: il Museo ha ingressato e digitalizzato in poche settimane circa 2.000 scatti fotografici inediti, ricevuto memorie ed epistolari di varia natura, incamerato beni di cui non si aveva notizia specifica del soggetto produttore, oramai scomparso, con la conseguente necessità di ricerche biografiche e familiari. Si è quindi optato per trasformare la mostra fotografica in un’iniziativa espositiva vera e propria, che desse conto anche di tale dimensione biografica. La mostra Vietnam dimenticato. Legionari italiani in Indocina 1946-1954, inaugurata il 7 maggio 2024 in corrispondenza della fine della battaglia di Ðiện Biên Phủ, raccoglie infine in chiave divulgativa le testimonianze di 20 testimoni, ordinate in 7 piccole sezioni tematiche e, nella sua genesi articolata, si è trasformata in un progetto di public history.
Metodo e limiti
L’esperienza personale della guerra in Indocina, per i soldati inquadrati nella Legione straniera francese, è profonda e lacerante. La violenza permea la quotidianità, fin dall’addestramento, con punizioni fisiche e psicologiche. In Indocina i legionari vivono immersi in una dimensione di violenza e morte quotidiana, senza possibilità di scelta. Ogni giorno vedono morire i compagni sotto i colpi di una guerriglia implacabile con un grande appoggio tra la popolazione; e ogni giorno uccidono, bruciano villaggi, torturano, vedono e subiscono crudeltà indicibili. Il rapporto con i vietnamiti è contrastato. Stupri, violenze di massa, torture e incendi di villaggi sono la norma. A scatenare le violenze è un misto di desiderio di vendetta, rabbia, frustrazione, ma anche un diffuso razzismo. Le efferatezze sono descritte, con reticenza, nei diari e sono note anche in Francia. La morte è una dimensione quotidiana. I tentativi di opposizione alla brutalità inflitta e alle violazioni dei diritti umani vengono repressi con aggressività, costringendo i legionari a convivere con gli orrori visti e commessi, con l’unica alternativa della diserzione.
Spinti dalla violenza, inflitta e subita, e delle condizioni estreme di vita, in molti tentano la diserzione, che viene repressa fermamente. Non mancano casi di legionari che defezionano e si uniscono alla guerriglia. L’organizzazione e la disciplina del Viet Minh spinge a tale scelta anche legionari che non condividono in principio le motivazioni della guerra di liberazione o le ragioni ideologiche di Ho Chi Minh. Per alcuni, invece, si tratta di una scelta esplicita: sono registrati casi di italiani che si arruolano con la legione con l’obiettivo dichiarato di disertare ed unirsi alla guerra di liberazione.
Molti dei legionari che disertarono in Indocina sono utilizzati dal Viet Minh come esempio di redenzione proletaria dal “cancro imperialista”. Dopo la vittoria sui francesi, questi uomini sono radunati in campi di raccolta nel Vietnam del Nord, vittime di malaria e denutrizione, con la promessa non mantenuta del rimpatrio via Cina e URSS. Nella primavera del 1955 viene data la possibilità ai sopravvissuti di scegliere se consegnarsi ai francesi o restare in Vietnam. La grande maggioranza sceglie la prima opzione. Consegnati ai francesi, i disertori sono sottoposti a corte marziale e condannati a pene detentive, da scontare nel durissimo carcere Baumettes di Marsiglia, che potevano andare da due anni fino all’ergastolo per chi aveva combattuto col Viet Minh. Scontata la condanna, avrebbero poi dovuto terminare gli anni di ferma che restavano nella Legione straniera.
Nell’organizzare, gestire e decodificare le testimonianze materiali pervenute, nell’intento di trasformarle in un percorso divulgativo attraverso una mostra, si è dovuto tener conto di numerose criticità metodologiche. La prima e più evidente è stata data dai caratteri estrinseci del conflitto e dalla dimensione estremamente violenta dello stesso, che faceva di questi volontari – la cui adesione alla legione era spesso condizionata – dei perpetrators in un conflitto di decolonizzaizone. Tale dimensione, di cui si doveva dar conto nella mostra, andava filtrata attraverso l’analisi delle testimonianze materiali pervenute, che per numerose ragioni erano connotate da evidente parzialità.
L’impianto visivo risultava indubbiamente incompleto. Per loro stessa natura, gli scatti fotografici rappresentavano in grande prevalenza momenti di addestramento, di coabitazione pacifica con i vietnamiti nelle grandi città, di cameratismo, di lavoro, mentre per ovvie ragioni risultavano rari gli scatti legati a episodi di guerra combattuta in un contesto di guerriglia e rarissimi quelli di violenze o rappresaglie apertamente inferte ed attuate. Una circostanza che poteva porre l’apparato visivo in forte contrapposizione con quello narrativo (testi di sala, testimonianze) e che è stato possibile equilibrare e contrappesare sono in ragione della quantità rilevante di materiale fotografico pervenuto, all’interno del quale si sono rinvenute anche alcune decine di immagini di saccheggio, rappresaglia, rapporti indubbiamente sbilanciati tra popolazioni colonizzate e legionari (ad esempio nelle relazioni di genere), l’enormità delle distruzioni legate all’assedio di Ðiện Biên Phủ. Gli scatti fotografici, se astratti dal contesto, parevano rappresentare in misura prevalente la dimensione dell’esotico, della comunanza di esperienze militari, del viaggio e solo in misura molto parziale evidenziano la dimensione del reportage di guerra.
Tale dimensione visiva risultava discordante rispetto a quanto si poteva apprendere da memorie, epistolari, diari, interviste, con fratture interne anche rispetto a tali tipologie di fonte. Interviste e memoriali redatti a distanza prospettica dagli eventi ammettevano apertamente la dimensione violenta del conflitto, le violenze inflitte e subite, il ricorso a stupri, torture, al napalm, a rappresaglie, il rapporto contrastato coi vietnamiti (anche con i collaborazionisti), descrivendo la realtà del conflitto in maniera decisamente più realistica rispetto all’apparato iconografico e contrappesando la reticenza fisica del racconto per immagini che, per ragioni pratiche (non si scattano foto durante un’imboscata) o per meccanismi di autocensura omette molti di tali aspetti. Al contempo, la lettura di interviste e memoriali ha evidenziato da subito la presenza e persistenza di processi autoassolutori e di meccanismi di scrittura finalizzati a dotare di senso l’accaduto ex post, secondo i quali sono frequenti le ammissioni legate ai crimini commessi dal proprio reparto o plotone, con l’indicazione esplicita del soggetto produttore di non aver preso parte alle violenze, anche in casi limite, nel quale il soggetto stesso era responsabile della disciplina della medesima compagnia e, pertanto, era chiaramente dotato dell’autorità per ordinare il ricorso a torture e rappresaglie. Tali testi (interviste condotte da Fregona senza uno schema scientifico, ma validate dai testimoni, in tre casi, e memoriali in altri) andavano a far luce su un panorama che le foto non potevano (o non volevano) rappresentare, pur caratterizzandosi per la necessità di poter essere utilizzate solo attraverso il ricorso ad alcune precauzioni metodologiche.
Da ultimo, diari, epistolari coevi e corrispondenza legata alle foto inviate ai familiari all’epoca, corredata a volte dall’invio di notizie a mezzo stampa che venivano commentate, aprivano lo spaccato sulla dimensione reale del conflitto, sulle sue implicazioni psicologiche, sulla diffusione dei meccanismi violenti anche all’interno della Legione, sulla fascinazione – in alcuni casi – per l’organizzazione e disciplina del Viet Minh. Si tratta di testimonianze quantitativamente più rarefatte, che mostrano tuttavia nella loro plasticità quanto i sopra menzionati memoriali tendano a rappresentare la vicenda secondo processi e letture teleologiche, che uniscono l’arruolamento e le vicende successive in un racconto sulla carta organico e che, invece, nel fondo, è connotato da fratture, pressioni, casualità, violenze.
All’interno della mostra si è fatto il possibile per dar conto, attraverso la selezione accurata dei testi e delle immagini, del contesto complessivo, per riuscire a mitigare la distanza prospettica che caratterizza questi tre racconti discordanti (foto, memoriali/interviste, diari/epistolari), nel tentativo di rappresentare senza omissioni la dimensione di questa esperienza che, nelle diverse sfaccettature biografiche, presenza molte variabili possibili. Nonostante questo sforzo, è rimasto dichiaratamente sullo sfondo un nodo centrale, dato dall’esperienza dell’altro, ovvero dei vietamiti, i quali all’interno delle fonti dei legionari, pur essendo caratterizzati da una propria agency e da una dimensione non esclusivamente oggettiva, tendono a dissolversi. Ne emerge una vicenda analizzata attraverso una lente prospettiva parziale – quella dei legionari – e che potrebbe scontare qualche limite interpretativo, dato che il racconto si basa esclusivamente sull’autopercezione di quanto costoro volevano che si tramandasse di questa esperienza, con la conseguenza di non poter fare sempre pieno affidamento sul materiale iconografico o memorialistico.
Nel complesso, si è trattato in ogni caso di un esperimento riuscito di narrazione pubblica della storia, per tre ragioni: in primo luogo, ha dato voce a testimoni di una vicenda che giaceva sopita nelle memorie familiari e che è emersa con una forza prorompente, tipica del bisogno dei “senza storia” di veder riconosciuta la propria esperienza. In secondo luogo, nei carotaggi che caratterizzano le biografie personali, si evidenza la difficoltà di applicare categorie interpretative rigide a fenomeni umani complessi, tanto che concetti storicamente molto noti e largamente utilizzati come quelli di “volontario” o “perpetrators/carnefice” acquisiscono in questa accezione delle sfumature non banali. Da ultimo, si è trattato di un laboratorio metodologico di rilievo, che ha mostrato la distanza e omissività di diversi tipi di fonte – legata ai conflitti contemporanei – anche in casi in cui il soggetto produttore era univoco, permettendo di mettere a confronto l’aderenza alle vicende narrate da fotografie, memoriali, interviste, diari, epistolari, che solo nella loro sommatoria hanno prodotto un risultato in qualche modo rispondente agli obiettivi dati.