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No alla storia “fai da te” riplasmata dalla politica

Fulvio Cammarano, No alla storia “fai da te” riplasmata dalla politica, La Lettura, 385, 14-4-2019

Ad un certo punto deve essere sorto un equivoco. Si è diffusa l’idea che la storia – siccome La storia siamo noi – è di tutti, è democratica e su di essa ognuno può intervenire con la propria convinzione, che, riguardando questioni del passato e non equazioni, avrebbe lo stesso valore di quelle di tutti gli altri, a prescindere dalla competenza. Si tratta, appunto, di un equivoco e forse è giunta l’ora di chiarirlo. Le grandi praterie del passato, la memoria, il ricordo (con tutte le continue ricostruzioni/decostruzioni degli eventi, ogni volta che affiora), sono, anzi debbono essere di tutti. Lì si produce quella insidiosa, quanto magmatica materia con cui costruiamo forme di identità e immaginari collettivi. La storia, però, no, non è di tutti. Non la possiamo confondere con il magma, perché è fredda. La storia, dunque, è di chi la studia, di chi la snida dagli anfratti delle innumerevoli fonti e dei molteplici documenti la cui natura varia nel tempo, senza i quali non ci sarebbe storia, ma solo libere narrazioni. In parte l’equivoco dipende dalla ambiguità lessicale che, in italiano, permette alla stessa parola di  definire i fatti avvenuti e lo studio di quei fatti, ma, soprattutto, è il risultato delle caratteristiche di fondo della disciplina. La storia non può e non deve enunciare leggi come fanno le scienze sociali e tale specificità ha prodotto la convinzione che la storia sia il libero ambito dell’opinione, il cui valore non dipende dalla verificabilità delle fonti e dal confronto con gli studi, ma dalla forza, “comunicativa” o “politica”, di chi la esprime. Non sarebbe così se fossimo, ad esempio, impegnati a valutare quanto petrolio si potrebbe trovare in una determinata area, perché si sentirebbe il bisogno di ascoltare il parere di qualche geologo o, nel caso volessimo  riconvertire la produzione agricola in una particolare zona, penseremmo di interpellare gli agronomi. Ma, anche a prescindere dalle scienze esatte, chi farebbe  a meno di sentire i pedagogisti per una riforma dei programmi scolastici o gli economisti nella individuazione di un particolare modello finanziario? Per gli storici questo non vale: ognuno ritiene di poter ricostruire  gli eventi sulla base di convinzioni formatesi avendo magari letto o ascoltato qua e là argomentazioni estemporanee, prive di confronti con la maggior parte della produzione storiografica. L’apparente statuto disciplinare aperto, collegato alla forma narrativa letteraria, rende la storia un ambito in cui la ricerca rigorosa viene facilmente sostituita da una babele di opinioni non argomentate, generalizzazioni, aneddoti, impressioni. La storia ha rinunciato allo statuto di scienza proprio per meglio aderire alla complessità del reale, alle sue contingenze imprevedibili e di questo, oggi, sembrano voler approfittare non solo la miriade di opinionisti che nei social si esercitano in ricostruzioni molto discutibili e poco documentabili, ma, soprattutto, quello che più conta, le sempre più numerose istituzioni pubbliche, locali o nazionali, che contribuiscono ad alimentare un uso pubblico della storia “utile” ad un esplicito obiettivo politico. Cosa hanno in comune, ad esempio, solo per citare qualche caso recente, la decisione di alcune regioni di istituire una “giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia”, la proposta di legge  “Fiano” che introduce il reato di propaganda del regime fascista senza nessuna garanzia per la libertà dei ricercatori, o la decisione della Regione Friuli-Venezia Giulia di tagliare i fondi di ricerca a quegli istituti che sulle foibe arrivano a conclusioni diverse da quelle stabilite dalla maggioranza regionale? Pur nella notevole distanza di temi e situazioni politiche, non si può fare a meno di scorgere la comune esigenza di orientare/censurare l’interpretazione della storia e, dunque, le prospettive della ricerca, mediante provvedimenti normativi. Soprattutto però emerge una comune volontà di procedere in modo unilaterale, rifiutando la strada del confronto con gli istituti e le società storiche, molte delle quali costituite da studiosi di diversi orientamenti politici e culturali, accomunati però dalla condivisione della serietà del metodo d’indagine. Nulla di nuovo, per carità: la storia è da sempre terreno conteso per costruire identità e tracciare linee di confine reali e simboliche. Tutti sono legittimamente tentati dalla costruzione di narrazioni egemoniche, ma l’operazione ormai non dovrebbe più prescindere dal fastidioso confronto con il sistema della verifica per confutazione. Per questo, nel mondo che teoricamente elogia il merito e la ricerca dell’oggettività, è difficile comprendere il motivo per cui i decisori politici, nel momento in cui scelgono di intervenire con lo strumento legislativo per fornire alla comunità una loro particolare prospettiva storiografica, non sentono mai il bisogno di ascoltare il parere delle istituzioni più rappresentative delle diverse correnti storiografiche, magari, perché no, mediante un confronto pubblico, una sorta di grande audizione da cui attingere gli elementi conoscitivi e interpretativi indispensabili per prendere un’autonoma, ma quantomeno informata e comunque dibattuta, decisione politica. Dovrebbe essere infatti ormai chiaro come sia controproducente fare scelte per il presente ignorando la storia. Non perché la storia sia “magistra vitae”, ma semplicemente perché la storia insegna ad interrogare i fatti, a non lasciarci ingannare dalla loro presunta evidenza, che spesso è solo l’evidenza di chi ha un interesse politico a spacciarla come tale. Eccoci dunque giunti di fronte a quello che solo apparentemente è un paradosso: più la storia viene relegata ai margini dei programmi scolastici e socialmente delegittimata in quanto sapere “inutile” o “antiquario”, più la politica cerca goffamente d’impossessarsene per ridurre gli spazi del conflitto e del plurale di cui la ricerca storica, per sua natura, sarà sempre una irriducibile testimone. 

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Angela Santese
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