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Černobyl tra questione mediatica e validità scientifica

Di Carlotta Carpentieri (Università della Tuscia)

Le modalità e gli strumenti attraverso cui è stato raccontato il disastro di Černobyl spaziano dalla storia alla cinematografia, dalla relazione scientifica all’informazione mediatica. Nel 2019 è stata prodotta da HBO e Sky Atlantic Černobyl’, miniserie in cinque puntate, creata e scritta da C. Mazin e diretta da J. Renck, che narra gli eventi immediatamente precedenti al disastro e le sue conseguenze sul piano civile e politico. In buona parte, le vicende raccontate si basano sui resoconti degli abitanti di Pryp”jat’, raccolti da S. Aleksievič nel libro Preghiera per Černobyl’ (Edizioni e/o, Roma, 2001), oltreché sul saggio Chernobyl 01:23:40 di A. Leatherbarrow (Salani Editore, 2016). La storia narrata si intreccia su più livelli con le vicende personali di alcuni personaggi intervenuti, in maniera cosciente o meno, a legare le proprie sorti con gli esiti politici, storici e scientifici del disastro. La presenza di queste figure si deve all’approccio “sociale” dato dalla Aleksievic nel suo libro, che consiste nel racconto non dell’«avvenimento in sé, vale a dire cosa era successo e per colpa di chi, bensì le impressioni, i sentimenti delle persone che hanno toccato con mano l’ignoto […] Černobyl’ è il principale contenuto del loro mondo. Esso ha avvelenato ogni cosa che hanno dentro, e anche attorno, e non solo l’acqua e la terra».

Già nelle prime puntate viene messo in luce uno dei temi principali del racconto: il contrasto tra la realtà e la percezione dell’evento. È evidente la scelta di costruire un doppio livello di narrazione, tra pubblico e privato, tra generale e particolare, raccontando le vite toccate dall’incidente: la moglie del pompiere, tra i primi a spegnere l’incendio, che assiste all’agonia del marito; il giovane mandato a bonificare la zona abbattendo gli animali radioattivi; i minatori chiamati a scavare per drenare l’acqua dei serbatoi. Il confronto tra quella che è la realtà del danno e la sua percezione nella società civile (di cui esempio è la scena che riprende gli abitanti di Pryp”jat’ sul “ponte della morte”, ad osservare l’incendio della centrale) e nell’ambito governativo, è un tema che richiama alla mente la storia del movimento antinucleare, il suo lavoro di informazione, il contatto con le popolazioni, la dimensione civica e nazionale, particolarmente viva nel contesto italiano.

Si possono riscontrare altri due temi centrali, che sono stati anche basilari nelle ricerche storiografiche e che sono fondamentali per comprendere quale sia stato l’effettivo impatto del disastro di Černobyl sul mondo: l’emergere del caos mediatico e il contrasto tra politica e scienza.

Il frastuono mediatico occidentale si genera, nei giorni immediatamente successivi all’incidente, soprattutto a causa del silenzio sovietico. Questo aspetto è stato dibattuto nella storiografia per i risvolti che l’evento ebbe, ad esempio in Italia, nel decretare decisioni politiche di particolare rilevanza. A tal proposito cito l’articolo di E. Meyer, Chernobyl: la madre di tutta la comunicazione ambientale (Altronovecento, Fond. Micheletti, n. 17, Maggio 2011). Meyer, come gli autori della serie, interpreta Černobyl come il caso mediatico per eccellenza, mettendo in luce le tempistiche della comunicazione ufficiale, per cui è emblematica l’espressione di Boris Ščerbina (Vicesegretario del Consiglio dei Ministri, alla guida della Commissione Governativa a Černobyl’) nel secondo episodio Il vento soffia verso la Germania. Non fanno uscire i bambini a giocare…a Francoforte!, pronunciata mentre la stessa Černobyl non è ancora stata evacuata. È un ritardo che, partito dall’URSS, ha un effetto domino sull’Europa generando ambiguità e incertezze nella comunicazione istituzionale. Un altro aspetto è il contrasto tra le valutazioni e le conseguenze dell’incidente. La storia del disastro di Chernobyl è fatta di numeri: milioni di persone che sarebbero dovute essere evacuate, decine di morti ufficiali e migliaia ufficiosi. Persino la percezione della gravità è basata su un numero, quello del livello di radioattività misurato da una macchina troppo poco potente, errore a cui si sceglie di credere. Lo stesso scenario è descritto da Meyer per la situazione italiana in cui tutta la comunicazione diventa un “balletto di numeri” e una “lotteria nucleare”. E mentre le istituzioni perpetrano un tipo di comunicazione ambigua, il fronte ecologista assume il ruolo di interlocutore affidabile, di unico soggetto competente e soprattutto, al contrario di tutti gli altri soggetti politici, non schierato su posizioni filonucleari. Sul tema hanno scritto anche M. Ruzzenenti, Incidenti nucleari: una lezione per il futuro (Altro Novecento, Fond. Micheletti n.  44, Dicembre 2021) e A. De Battisti, La stampa italiana e la catastrofe di Chernobyl (Altro Novecento, n. 29, Agosto 2016).

È interessante notare come in una pubblicazione dell’88, a cura di R. Biorcio e G. Lodi (La sfida verde. Il movimento ecologista in Italia, Liviana Editrice, 1988), in cui si ricostruisce la diffusione della coscienza pubblica sui temi ecologisti, i sondaggi riportino un calo degli indecisi e un forte aumento dei contrari al nucleare proprio per l’anno 1986. Ed è per questo che gli autori parlano di “rivoluzione mentale”, a seguito dell’incidente di Černobyl, nella consapevolezza che il degrado ambientale non fosse dipendente da «forze oscure, ma originato in gran parte da scelte maturate nella società».

Questa situazione, esplosa a seguito dell’incidente, ha la sua origine nella contingenza storica degli anni ’80, al ruolo dell’URSS (aspetto di cui tratta A. Farro ne La lente verde. Cultura, politica e azione collettiva ambientaliste, Franco Angeli, 1991) e alla figura di Gorbačëv.

Nella serie Gorbačëv, per quanto condizionato dalla rigidità burocratico-politica delle istituzioni sovietiche, è sostenitore del lavoro del professor Legasov, il fisico nucleare chiamato a gestire, in un clima di omertà e disinformazione, la situazione a Černobyl. D’altronde anche la storiografia riporta che, nel tentativo di insabbiamento, Gorbačëv tiene le distanze dalla burocrazia militare-industriale, responsabile del programma nucleare, che egli stesso definisce uno “stato nello stato”. Questa interpretazione, da un lato, si ricollega alla politica della glasnost’, la trasparenza, di cui tratta John L. Harper, nel suo volume sulla Guerra Fredda, dall’altro, ci ricollega al tema, centrale nella serie, del rapporto tra politica e scienza. A tal proposito è emblematico il monologo finale di Legasov, in cui gli autori hanno tramandato l’insegnamento di Černobyl: «essere uno scienziato vuol dire essere un ingenuo. Siamo così presi dalla nostra ricerca della verità da non considerare quanti pochi siano quelli che vogliono che la scopriamo». È un aspetto che oggi più che mai fornisce uno spunto di riflessione sulle modalità in cui si coniuga, nelle circostanze emergenziali, la comunicazione e l’informazione scientifica con la politica.

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