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Tiziano Bonazzi recensisce “Lincoln” (2012)

Lincoln, film di Steven Spielberg, con Daniel Day Lewis, Tommy Lee Jones, Sally Field, 2012

1- Tre date risuonano sopra ogni altra nella memoria degli americani, il 1776 dell’indipendenza e della rivoluzione, il 1941 di Pearl Harbour e della Seconda guerra mondiale e il 1861 della secessione sudista e della Guerra civile; ma mentre le prime due, al di là degli scontri sulle interpretazioni, uniscono orgogliosamente il paese, la terza suscita ancora fantasmi, è complessa e frammentata. A Columbia, la capitale del primo stato a lasciare l’Unione nel dicembre 1860, la South Carolina, la statua al soldato confederato svetta orgogliosa su un’alta colonna proprio davanti al Parlamento statale e la bandiera dei Confederate States of America garrisce dietro di essa quasi a sfidare quella degli United States of America sulla cupola del Campidoglio. Solo dal 2006 un memoriale in ricordo della tratta è stato collocato sul prato a destra di quest’ultimo; ma tutto attorno si ergono monumenti dei primi del Novecento in onore del Sud e una grande statua a cavallo ricorda Wade Hampton III, generale confederato, primo Governatore Democratico dello stato dopo la Ricostruzione nordista e fondatore delle “Camice Rosse”, che in Carolina sostituirono il Ku Klux Klan. Il loro nome era un tributo a Garibaldi e alla sua lotta di liberazione nazionale, il che dice tutto. Non solo in South Carolina, ma ovunque, a Nord e a Sud, non vi è città o cittadina senza un monumento in ricordo della Guerra civile e a non farli dimenticare, in un paese dall’intensa cultura popolare, pensano centinaia di associazioni che ricordano con orgogliose rievocazioni in costume e nei loro siti web campagne, battaglie, eroi locali. Un gran numero di società storiche ha creato dozzine di piccoli e grandi musei e fatto minuziosissime ricerche su ogni evento, ogni reggimento e quasi ogni combattente – e il web fa rimbalzare fedelmente tutto.

La memoria della Guerra civile divide e unisce al tempo stesso ed è l’agone dove scontrarsi per fare e disfare quell’eterna tele di Penepole che è il “chi siamo” del paese. Il cinema ne è divenuto luogo di elezione fin dai grandi classici, Nascita di una nazione di D.W.Griffith (1915), Come vinsi la guerra di Buster Keaton (1926), Via col vento di Victor Fleming (1939). Una filmografia imponente, che ha attraversato un secolo di storia americana, le sue certezze e i suoi interrogativi, da Griffith, Fleming e il mito sudista, razzista e romantico, della “Causa perduta” e del popolo bianco del Sud martire al pari di Cristo, all’esaltazione dell’onore maschile e del valore militare di tutti gli americani, non importa se nordisti o sudisti, in Gettysburg di Ronald Maxwell (1993), al pacifismo quacchero di Gary Cooper ed Anthony Perkins ne La legge del Signore (1956) – un film il cui soggetto, nel clima di sospetti del maccartismo, dovette essere cambiato per insegnare che combattere e uccidere, alla fine, è necessario -, ai dolenti eroi solitari che intendono sfuggire alla guerra e alle sue conseguenze di Balla coi lupi di Kevin Kostner (1990) o Ritorno a Cold Mountain di Anthony Minghella (2003), fino al revisionismo storico di Glory (1989), con Morgan Freeman e Denzell Washington, sul famoso 54th Massachusetts, l’eroico reggimento unionista nero che nel 1864 si fece massacrare nell’inutile attacco all’imprendibile Fort Wagner.

2- Con Lincoln Spielberg si inserisce in questa tradizione per analizzare fuori dagli stereotipi la figura di Abraham Lincoln e l’intricatissima matassa politica e costituzionale in cui questi venne a trovarsi, una lezione di storia quindi, e nel farlo si pone interrogativi propri dell’oggi, anche se non si allontana dai canoni filmici hollywoodiani e riassume nel protagonista vicende enormemente complesse. E’ la prima volta che Spielberg tratta della Guerra civile; ma nel 1997 aveva affrontato il tema da essa inseparabile della schiavitù in Amistad sul famoso processo del 1840 contro gli schiavi che al largo di Cuba, impadronitisi del battello negriero spagnolo che li trasportava, erano stati traditi dai superstiti dell’equipaggio che invece di ricondurli in Africa li aveva portati sulle coste statunitensi dove erano stati arrestati e accusati di ammutinamento. In Amistad il regista si proponeva come “intellettuale pubblico” sia nel descrivere lo scontro fra bianchi sulla schiavitù durante il processo, sia nell’indagare il rapporto con l’altro, il nero proveniente direttamente dall’Africa, ancora interamente se stesso – un tema proprio degli anni ’90. La schiavitù è il tema di fondo anche di Lincoln; ma è vista indirettamente, attraverso gli scontri e le manovre politiche con cui il Presidente riuscì, il 31 gennaio 1865, a far approvare dalla Camera dei Rappresentanti il 13° Emendamento alla Costituzione che aboliva la schiavitù e fissava in via definitiva quanto il Proclama di emancipazione del 1 gennaio 1863 – un atto compiuto da Lincoln in base ai suoi poteri di comandante in capo delle forze armate in tempo di guerra – non poteva garantire sul piano legale una volta tornata la pace.

In Lincoln Spielberg si propone di nuovo come intellettuale pubblico e il parallelo non può essere che con il recente The Conspirator di Robert Redford (2010), sul processo ai cospiratori che uccisero Lincoln e tentarono di assassinare altri membri del governo. Un film che ha come basso continuo la voglia di pace del popolo una volta terminata la guerra, pronta a diventare voglia di vendetta nei confronti di chi fa riaffacciare la violenza. The Conspirator si interroga sul popolo sovrano reso sanguinario dalla sofferenza, nonché sul rapporto fra politica – impersonata dal Ministro alla Guerra Edwin Stanton che manipolò il processo anche nei confronti della protagonista, Mary Surratt, madre del vero assassino John Wilkes Booth, la colpevolezza della quale aveva base indiziaria – e legge, la Costituzione, i cui principi di imparzialità e difesa dei diritti dei cittadini la politica è pronta a violare per difendere lo stato o forse per rafforzarlo. Siamo di fronte a un fil rouge del cinema americano perché si tratta di interrogativi centrali nella cultura politica del paese. Un paese costruitosi politicamente sul principio della sovranità popolare che si autolimita attraverso il rule of law, intrinseco all’idea di una Costituzione superiore agli statute, alle leggi volute dal popolo attraverso i suoi rappresentanti, e che da quella si estende a tutta la vita pubblica. Entrambi, sovranità popolare e rule of law, fanno retrocedere il terzo, fondamentale istituto politico della Grande Europa euroamericana, lo stato, che non per nulla non ha mai goduto di buona stampa oltreatlantico. Uno schema per nulla pacifico e pacificato, tuttavia, perché, come mostra The Conspirator, la sovranità popolare non è pura e lo stato torna sempre sulla scena a esigere il suo tributo.

Spielberg si muove all’interno di questa drammatica dialettica; ma la scava ulteriormente rispetto a Redford. Al pari di quello di Redford il suo non è un film di guerra, anche se la breve, orribile scena iniziale di un corpo a corpo feroce nell’acqua e nel fango e quella del dolente pellegrinaggio di Lincoln nel carnaio del campo di battaglia di Petersburg fra centinaia di cadaveri putrescenti, il 4 aprile 1865, dieci giorni prima di essere anche lui ucciso, scandiscono il film a non far dimenticare il contesto in cui si colloca. Forse Spielberg ha colto che in questo momento il pubblico americano si ritrae dalle tematiche della guerra e le sue preoccupazioni si volgono altrove. Un film sulla politica, allora, ovvero, come vari critici hanno scritto, una meditazione sulla sua intrinseca immoralità, perché per ottenere i voti dei due terzi dei Deputati, necessari per far passare un emendamento costituzionale, Lincoln usa e fa usare dai suoi ogni mezzo, dalla convinzione alla minaccia alla corruzione alla menzogna. Un film su Machiavelli e “Il principe”, allora. Non credo che Spielberg abbia pensato a Machiavelli; ma se oltre ai critici cinematografici si leggono i blog molte reazioni rimandano all’antimachiavellismo e agli interrogativi sull’immoralità della politica, al senso di vuoto che lascia lo spettacolo delle manovre di palazzo, allo sconcerto per l’uso di mezzi cattivi per un fine buono. Non è un Lincoln stereotipato quello che descrive Spielberg e qui a mio avviso è la chiave del film.

3- L’aggressivo professionismo degli storici d’oltreatlantico sta provocando un fiume di pubblicazioni per i 150 anni della Guerra civile e fra queste continue sono quelle su Lincoln, di cui viene svelata non più solo la grandezza, ma la sofisticata, complessa personalità e cultura. Un personaggio difficile da decifrare, venuto dal nulla, diventato avvocato di successo poi leader politico dopo aver fatto mestieri manuali e soprattutto senza avere alcuna educazione, neppure quella delle scuole elementari, ma autodidatta di genio: quasi un’icona del mito americano del self-made man. Il self-made man, però, non può essere compreso se non come espressione di un’altra caratteristica fondamentale degli Stati Uniti, la cultura popolare. Una cultura che occorre vedere nella sua storicità, per cui Lincoln è incarnazione di quella di metà Ottocento, al tempo stessa furba e schietta, i cui pilastri erano nella Bibbia, nell’etica dell’autonomia che rende pienamente umani, nel duro lavoro che consente di essere autonomi, nella percezione dell’uguaglianza con gli altri che porta al dibattito e al confronto, nell’allegria delle storielle a volte stralunate, a volte maliziose di cui Lincoln era maestro fin da quando le raccontava nelle botteghe dei paesi dell’Illinois per ottenere popolarità e consenso. Una prassi che non smise neppure alla Casa Bianca, come Spielberg sottolinea, e che serviva a introdurre e sottolineare le sue decisioni. Un uomo di grande pazienza, pronto ad ascoltare, apparentemente docile, in realtà irriducibile e abilissimo. Una persona di assoluta rettitudine e certezza morale, ma mai di assolute certezze politiche, che si trovò a dover svicolare fra cavilli e mezze verità in mezzo a uomini che, pur assieme a lui impegnati nella stessa guerra, volevano cose diverse ed erano loro stessi combattuti e divisi. Il Presidente Lincoln era tutto ciò e se si segue questa linea senza sentimentalismi, come fa anche Spielberg, si comincia a entrare davvero nella storia americana.

Entrare senza timori nella storia degli Stati Uniti nel suo momento più tragico, questo è il compito civile che ritengo Spielberg si sia dato per andare al di là del mito del liberatore degli schiavi e – al possibile – oltre il mito del trionfo del bene contro il male e della eterna capacità americana di scegliere la libertà; ma anche al di là del moralismo opposto, quello dell’eterna sconfitta di un’America incapace di essere vera a se stessa. Lincoln, a mio avviso, con la visionaria capacità della fiction, è indice di una maturazione in corso oltreatlantico – non voglio a mia volta mitizzare se destinata alla vittoria – che consente di guardare alla propria storia in modo complesso, studiandone contraddizioni e limiti senza alzate di spalle, ma con realismo e pietà.

Lincoln può così scavare i tanti nodi storici e costituzionali, per lo più poco noti o sconosciuti, essenziali per capire i dilemmi del periodo – e su questo il film è una lezione di storia. Ad esempio, il significato del federalismo che Lincoln insiste essere espressione di un popolo uno, cosicché non può esservi secessione di stati, ma solo ribelli all’interno di stati che giuridicamente restano nell’Unione – e i ribelli non possono aspirare a nessun riconoscimento. Proprio questo, però, fa si che le leggi degli stati restino valide e con esse la schiavitù, spiega Lincoln, visto che si tratta di una materia che la Costituzione assegna a loro, non alla federazione. Da qui la necessità di un emendamento costituzionale. Per i sudisti, però, la federazione non è opera di un popolo, ma dei popoli dei vari stati che si sono uniti e questi singoli popoli e stati hanno diritto di secedere. Il che nel film consente al Vice-presidente della Confederazione Alexander Stephens, venuto a trattare la pace, di respingere l’idea di Lincoln per la quale occorre seguire il rule of law, che in democrazia giustifica i limiti alla libertà e porta la minoranza a dover accettare la vittoria della maggioranza, onde il Sud non aveva diritto di secedere, come aveva fatto, a seguito della vittoria di Lincoln alle presidenziali del 1860. Stephens ritorce che non è col voto e la democrazia che il Nord sta costringendo il Sud a restare nell’Unione, ma con i cannoni e Spielberg ha l’intelligenza di far rispondere pensosamente a Lincoln: “Forse è vero”.

Forse è vero. Il dubbio di un Presidente inquieto che Spielberg evidenzia è quello che gli storici hanno individuato in Lincoln, uno dei cui tratti più importanti fu di saper cambiare, di mutare nel tempo di fronte ai dilemmi sempre nuovi davanti ai quali si trovava. Primo fra essi la ragione stessa della guerra per il Nord – e moltissimi nordisti erano favorevoli a lasciar andare il Sud per la propria strada, così come molti sudisti non volevano la secessione, il che rende tutto ancor più tragico – che a lungo fu quella di salvare l’Unione, mettendo fra parentesi la questione della schiavitù. Lincoln stesso aveva sempre sostenuto che, pur essendo personalmente antischiavista, non era affatto abolizionista e voleva solo che la schiavitù non venisse estesa ai nuovi territori che man mano entravano nell’Unione, perché riteneva che così la schiavitù sarebbe morta da sola; come credeva che neri e bianchi non potessero convivere negli Stati Uniti e fu ostinatamente favorevole, prima e dopo l’elezione, all’emigrazione dei neri liberi, al loro ritorno in Africa o al loro trapianto da qualche parte in America Latina. Di fronte alle difficoltà della guerra, tuttavia, egli finì col capire che la semplice difesa dell’integrità dell’Unione non era un argomento sufficientemente forte, che occorreva altro per unire il popolo del Nord e per dar senso all’idea stessa di Unione. Abbracciò allora la tesi, alla quale si era già da prima avvicinato e che guadagnava terreno nella popolazione, che il massacro in corso era opera di una cospirazione di schiavisti e che la schiavitù stava distruggendo la speranza di libertà che gli Stati Uniti rappresentavano per il mondo intero: the last best hope of earth. Un richiamo ideale e nazionalista che, in un crescendo, introduce il Proclama di Emancipazione il quale porta a sua volta al 13° Emendamento.

Lincoln sciolse con un atto d’imperio il quesito che aveva posto nel 1858 con il famoso discorso su una casa che, divisa, divided against itself, crollerebbe. Lo fece con un Proclama sulla cui costituzionalità aveva molti dubbi, anche se in tempo di guerra poteva aver base giuridica; ma della cui necessità era certo. E con questo si entra nel cuore del film oltre che della storia, perché gli Stati Uniti erano, non come dice il mito, ma con tutte le storture che la storia ci indica, una democrazia e nel Nord Lincoln veniva apertamente accusato di volontà monarchiche e dittatoriali. Al Congresso il suo partito, il Repubblicano, era spaccato fra una corrente radicale abolizionista e una conservatrice che aveva fatto non dell’emancipazione, ma dell’unità nazionale la propria bandiera, e vi era anche una significativa minoranza Democratica – lo stesso partito che dominava il Sud e aveva voluto la secessione – desiderosa di finire la guerra. Qualche decennio fa, probabilmente, un film su questo argomento avrebbe dipinto un Lincoln eroico azzannato dai nemici della libertà e assediato da fanatici abolizionisti, un Lincoln dalla grande tempra che liberava gli schiavi e al tempo stesso impediva ogni deriva giacobina. Oggi Spielberg, in modo più aderente agli eventi, mostra un uomo che, presa una decisione, la impose con tutti i mezzi che i suoi poteri di Presidente – per lo più confermato dal popolo alle elezioni del novembre 1864 – gli mettevano a disposizione, e innanzi tutto con la corruzione, la promessa di posti pubblici.

Il film, pur essendo fiction e fiction perfettamente costruita, è anche una lezione di storia che non rifugge, anzi, si tuffa nella complessità di un plot che nessuno sceneggiatore oserebbe inventare perché ostico e difficile da seguire. Già in questo c’è un valore civico – nel guardare alla storia nella sua implacabile e contraddittoria difficoltà e anche nei suoi recessi oscuri e dimenticati. Spielberg si rivolge a due di questi, uno, già notato, è il rapporto ambiguo fra mezzi e fini, fra politica e morale, l’altro è il profondo disprezzo dei bianchi americani nella loro grande maggioranza, anche a Nord, nei confronti dei neri. Libertà non vuol dire uguaglianza neppure per il Presidente, che nel film giunge al massimo a dire che “mi potrò abituare a voi”. La Guerra fredda ci aveva convinti ad adottare una visione compatta e chiusa dell’America, o tutta buona o tutta cattiva; il che, ammettiamolo, la rendeva poco interessante e infatti quanti si sono mai interessati davvero ad essa? Nei vent’anni successivi le classi dirigenti americane hanno cercato di convincere se stesse che gli Stati Uniti potevano ancora essere uno specchio, integro e perfetto, guida progressista del mondo nella globalizzazione secondo Clinton, cavaliere senza macchia e senza paura dell’assoluto secondo Bush; ma la società americana stava cambiando e stava cambiando il ruolo del paese nel mondo. Il film di Spielberg comincia ad affrontare tutto questo e costringe a guardare sul serio alla storia americana.

Gli Stati Uniti: il paese dell’incertezza, se vogliamo usare un termine vecchio, ovvero un paese da sempre modernamente liquido, per passare a un’espressione contemporanea. Non paia una sciocchezza; ma il simbolo degli Stati Uniti non è il melting pot che eleverebbe a superiore unità le tante spinte che sgomitano in essi, è il patchwork, il tessuto multicolore di pezzi di stoffa diversa. Un paese che non ha mai potuto riposare, tormentato da un continuo mutamento, da spinte contraddittorie e potenti, che non per nulla cerca nel rule of law, come sostiene Lincoln, lo strumento per limitare volontà opposte e rocciose; ma neppure la legge è limpida e allora occorre far ricorso alla coscienza e alla sua morale che però – nella libertà – si scontra con altre coscienze, per cui si finisce con l’affidarsi alla forza o alla corruzione. Rifondare la nazione sulla libertà dei neri, ma passando per l’immoralità e affidandosi all’ambiguità di non parlare della libertà come uguaglianza è il senso del 13° Emendamento; un risultato che spalanca altri, perversi scenari di cui le “Camice rosse” della South Carolina sono il simbolo. La storia americana è una storia di continui, ruvidi e spesso tragici scontri che non hanno sulla a che fare con l’immagine pacificata che gli Stati Uniti hanno proiettato di se stessi, un po’ per autorassicurarsi, un po’ per le necessità politiche di quella Guerra fredda che ha segnato la vita di tutti noi. Con i suoi 630.000 morti la Guerra civile, la più sanguinosa dell’Ottocento nella Grande Europa, è la vera icona di una storia senza tregua e senza respiro su cui oggi, forse, davanti alle trasformazioni in corso, si ragiona in profondità.

Spielberg ha fatto un buon servizio, anche se il film non è del tutto limpido. Un film di bianchi, hanno notato molti, in cui quasi si sorvola sul ruolo dei neri nella lotta per la libertà: i grandi abolizionisti neri come Frederick Douglass, le migliaia di schiavi fuggiti a Nord prima della guerra, le centinaia di migliaia che all’avvicinarsi degli unionisti andarono loro incontro lasciando le piantagioni, i 200.000 neri volontari nelle armate nordiste. E senza volerlo ironica, se non fuorviante, è la scena finale, con il flashback sul famosissimo Second Inaugural Address del 4 marzo 1865 davanti a una folla di bianchi e neri assieme – vero – in cui Lincoln si rifà all’imperscrutabile volere di Dio per capire perché per abolire la schiavitù sia occorsa una guerra tanto feroce all’interno dello stesso popolo. Un discorso alto e commovente che termina con un richiamo al bisogno di tornare a “una giusta e durevole pace fra noi e con i popoli della terra”, che pare il sigillo su quanto ottenuto con il 13° Emendamento; ma noi sappiamo che quella pace ci fu soltanto quando, dopo il 1876, abbandonata da parte del Nord la Ricostruzione, il Sud ottenne lo home rule e con esso la possibilità di dare il via alla segregazione. Quando, insomma, con quello che gli storici chiamano “patto razziale”, la nazione americana rinacque e rinacque ancora bianca. Forse Spielberg si era già spinto abbastanza in là. Più probabilmente, a un’America che di nuovo si contorce fra spinte opposte che la privano sia di una morale comune che di una comune interpretazione della legge, che è incerta e “liquida” come poche volte nella sua storia, non si poteva togliere l’ultimo bastione, quello che tanto spesso la ha sorretta, la visione – il mito necessario – di una raggiunta, vera libertà.

Tiziano Bonazzi

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