Contributi di Loris Zanatta (Università di Bologna) e Paolo Macry (Università di Napoli Federico II)
Loris Zanatta, Si sgonfia il populismo in America Latina
Sbaglia chi pensa che dopo la vittoria di Mauricio Macri in Argentina e il tonfo elettorale di Nicolás Maduro in Venezuela, l’America Latina sia sul punto di passare da una stagione politica dominata dalla sinistra ad una dominata dalla destra. Ammesso che l’asse destra – sinistra sia adeguato per comprendere la storia politica, cosa che mi è sempre parsa di un semplicismo disarmante, di certo non lo è per cogliere il senso di ciò che accade oggi. Ha forse senso nei sistemi rappresentativi pluralisti, dove esiste ampio consenso sul sistema istituzionale democratico e dove destra e sinistra divergono ma si riconoscono legittimità reciproca. Ma non ne ha laddove impera il populismo, che per sua natura ambisce a monopolizzare lo spazio della legittimità politica e racchiude perciò in sé i ruoli che altrove svolgono destra e sinistra. Che così sia, ad ogni modo, lo dimostrano i fatti: se, infatti, la sinistra enfatizza l’egualitarismo, non si vede come sia possibile sostenere, dati alla mano, che i paesi governati dalla “sinistra” latinoamericana nell’ultimo decennio siano più egualitari di quelli governati dalla “destra”. La povertà è diminuita in Bolivia come in Colombia, in Ecuador come in Perù, in Brasile come in Messico. Anche la diseguaglianza è diminuita, seppur meno di quanto fosse lecito sperare. Ma non si vede alcun rapporto diretto tra la sua diminuzione e il colore ideologico del governo in carica. Semmai, si può notare che ora che il ciclo economico positivo s’è chiuso, le economie aperte della Alianza del Pacifico si stanno in genere rivelando più solide e dinamiche di quelle nazionaliste e autarchiche che si affacciano sull’Atlantico. Per capire il nuovo clima che parrebbe prendere piede in America Latina, dunque, è bene usare come parametro la natura dei regimi politici. Così facendo, si vedrà che l’ampio consenso di cui hanno goduto finora i regimi populisti sta perdendo colpi e che monta la domanda di democrazie normali, quanto più possibile vicine a un moderno Stato di diritto.
Prima di tutto, però, quali sono gli indizi del mutamento di clima in corso? Per cominciare, l’uscita di scena del kirchnerismo in Argentina: pochi pensavano che non sarebbe stata sul redcarpet, e assomigliasse invece a una via crucis; via crucis la cui successiva stazione, per i regimi populisti, è statoil previsto tracollo elettorale del chavismo, una vera e propria disfatta perchi fino ad appena due anni fa era stato il maggiore propellente regionale dell’alternativa populista. Più saldi appaiono ancora in sella Rafael Correa in Ecuador ed Evo Morales in Bolivia, con indubbie peculiarità. Ma le recenti elezioni locali hanno mandato loro segnali preoccupanti: quando il candidato non è il leader, il partito di governo ne esce malconcio. Ora entrambi pensano di perpetuarsi al potere riformando la Costituzione: un patetico déjà-vu; ma attenzione all’effetto boomerang. Su tutti costoro ha vegliato a lungo, padre tollerante e complice, il governo di Brasilia. Ma la salute del PT è assai logorata e il lungo ciclo inaugurato da Lula nel 2002 potrebbe tramontare, lasciando in giro orfani politici. Le pratiche per l’impeachment della presidente DilmaRousseff sono già avviate. Si dirà che altri leader non stanno meglio, che Michelle Bachelet vola in Cile di crisi in crisi, che la popolarità di OllantaHumalain Perù è sotto i tacchi, che Juan Manuel Santos si gioca tutto al tavolo del processo di pace in Colombia. Tutto vero. Ma nessuno di loro governa in nome di una pretesa revolución: in quei paesi è in discussione la qualità del governo, non la natura del regime politico. Dove governa il populismo è l’opposto.
Cosa distingue il populismo da un banale regime democratico? In fondo, salvo a Cuba, si tengono oggi ovunque elezioni competitive e tutte le Costituzioni tutelano i diritti individuali, la separazione dei poteri, lo Stato di diritto. Almeno a parole. Qual è il problema? Lasciamolo spiegare a NicolásMaduro: “non consegnerei la rivoluzione”, ha detto ipotizzando la sconfitta elettorale puntualmente subita. E poi: “passerei a governare col popolo sulla base di una unione civico militare”. Tradotto: se il Popolo non mi vota, eserciterò il potere col mio Popolo; le regole valgono solo se vinco io. Brutale, ma chiaro. C’è popolo e popolo, per i populisti, i quali, ridotti all’osso, si riducono a questo: alla presunzione che il loro Popolo, tanto o poco che sia, sia moralmente superiore al Popolo altrui, in quanto incarnazione di ideali riconducibili a una sorta di purezza morale e spirituale: la Giustizia, la Solidarietà, l’Eguaglianza, l’Identità Nazionale e così via. E’ in nome di tale Popolo immaginario che pretendono l’unanimità; ed è ciò ad impedire loro di cogliere nella vittoria dei loro oppositori un fisiologico accadimento della democrazia. Da ciò la crisi di regime, laddove non vi sarebbe altro che un normale avvicendamento di governo.
Perché dei regimi che avevano vento in poppa e casse piene, come quello chavista o kirchnerista, sono finiti in così cattive acque? Perché, dopo avere fatto il bello e il cattivo tempo, subiscono oggi l’onta della sconfitta elettorale e minacciano di trascinare interi paesi lungo la pericolosa china dello scontro? I motivi abbondano: malgoverno, arbitrarietà, corruzione, recessione. Ve ne sono però alcuni più profondi e inediti. Il primo è che i populismi odierni sono ibridi: hanno la stessa pulsione totalitaria dei loro antenati, ma non possono, come quelli, spingersi a spazzare via ogni avversario. I populismi odierni vivono, seppur a disagio, dentro la democrazia, che li obbliga a tollerare più pluralismo di quanto vorrebbero, a competere e a correre il rischio della sconfitta. Non solo: mentre un tempo il ciclo populista era spesso spezzato dall’intervento delle forze armate, che ne potenziava così il mito di custodi della sovranità popolare, oggi tale rischio non esiste più. I populismi possono così esaurire il loro ciclo ed esibire senza più alibi i frutti tutt’altro che esaltanti del loro governo. Se un tempo cadevano, lasciando il sogno di una speranza repressa, ora lasciano in bella vista i panni sporchi e i piatti rotti.
Una seconda, non meno importante ragione aiuta a spiegare come mai i populismi rischiano oggi di rimanere orfani del popolo nel cui nome agiscono. Si potrebbe chiamarla “la grande illusione” dei populismi. Essi pretendono infatti di esercitare il monopolio del potere invocando un Popolo mitico, omogeneo e indifferenziato che la realtà sconfessa man mano che le società dei paesi dell’area diventano giorno dopo giorno più diversificate e plurali. La forte crescita economica dell’ultimo decennio, in particolare, ha accelerato in tutta l’America Latina la lievitazione di ceti medi più autonomi, esigenti, secolarizzati e istruiti. Ai loro occhi, il tipico mix populista di caudillismo, clientelismo, demagogia, appare un rituale primitivo. Sono d’altronde fenomeni che evocano il passato ispanico più che una società moderna, equa ed efficiente. Non per questo, sia chiaro, i populismi hanno i giorni contati: sono stati, sono e rimarranno una potente alternativa alla democrazia liberale. Alla quale, però, si offre oggi una nuova opportunità. Saprà sfruttarla meglio che in passato?
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Paolo Macry, Mio cugino Mauricio Macri, presidente “migrante”*
Migranti. Dopotutto è una storia migrante anche quella che si corona (ma non si conclude) oggi, con l’elezione di Mauricio Macri alla presidenza dell’Argentina. È cioè una storia di mobilità geografica, ma anche culturale e mentale.
A dire il vero, Giorgio, il nonno di Mauricio e il fratello di mio padre, non era arrivato a Buenos Aires, nel 1947, con la valigia di cartone, né era in fuga dal proprio paese. Piuttosto andava alla ricerca di una vita diversa. Nato in una famiglia di ceto medio calabrese, vivace, eclettico, certe volte bizzarro, aveva già fatto l’imprenditore edile (tra Italia e Africa), il pubblicista, il produttore cinematografico, l’inventore dilettante.
Poi, nell’Italia dell’immediato dopoguerra, si era buttato in politica ed era stato tra i fondatori del movimento dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Troppo o troppo poco, per i suoi gusti? Certo è che, dopo aver ottenuto l’annullamento del matrimonio, aveva deciso di lasciare l’Europa e giocare l’avventura argentina. Un lungo viaggio solitario. Un mese sul mare. Poco dopo, a Buenos Aires l’avevano raggiunto i tre figli, tra i quali Franco, il primogenito allora diciottenne, il padre del neopresidente. Mio cugino Franco.
E Franco, nel giro di pochi decenni, aveva letteralmente dato l’assalto al nuovo mondo. Un leone nella foresta. Aveva fondato o rilevato decine di imprese, dall’edilizia alle grandi opere stradali, dalla metalmeccanica al settore elettrico, dall’alimentare alla raccolta dei rifiuti (i rifiuti della megalopoli brasiliana di San Paolo, per intendersi). Un impero economico di scala continentale.
Nell’Argentina degli anni Ottanta e Novanta, per la gente comune, per la stampa rosa, per il mondo politico, Franco Macri era semplicemente Franco. Un nome comune per significare l’uomo più potente del paese. Il primo contribuente dell’America Latina. La sua voracità di imprenditore puro (si è sempre tenuto alla larga dalla finanza) divenne leggendaria.
E la leggenda toccò anche il figlio Mauricio, il neopresidente dell’Argentina. Nel 1991, Mauricio venne bloccato per strada, chiuso a forza in una bara, trasferito in un covo e tenuto sotto sequestro per settimane. Sopravvissuto al rapimento, il giovane cominciò a fare scelte che non corrispondevano al destino che per lui aveva immaginato il padre. Si allontanò dalla holding dei Macri, dando un grosso dispiacere al patriarca. Ma, d’altronde, al sangue non si comanda. Tornava a manifestarsi la vena di irrequietezza e di voglia di nuove esperienze che da decenni aveva segnato la storia della famiglia. Mauricio divenne il presidente della squadra di calcio del Boca (vincendo con il Boca tutto quello che c’era da vincere), poi virò sulla politica, entrò in parlamento, costruì un profilo di leader liberale che appariva non facile nell’Argentina peronista, ma ebbe ragione perché riuscì a conquistare la strategica carica di governatore di Buenos Aires. Conseguendo ottime performance, se è vero che fu rieletto per un secondo mandato e che la popolarità raccolta in questo ruolo è stata la chiave di volta della sua vittoriosa scalata alla Casa Rosada.
Ovviamente, quelle di Giorgio, Franco e Mauricio sono storie individuali, ciascuna diversa dalle altre. E tuttavia le accomuna, oltre che i mille filamenti genetici e culturali che di regola uniscono padri, figli e figli dei figli, anche la vicenda della grande migrazione italiana novecentesca e, più in generale, certi caratteri basici di tutti gli spostamenti di popoli. Un tema straordinariamente attuale. Certo, i Macri non hanno mai dovuto fuggire la guerra sui barconi della morte che oggi attraversano il Mediterraneo. Né hanno tramandato di generazione in generazione la paura e l’indigenza. Ma, sono sempre stati, dal capostipite calabrese al giovane neo-presidente, avidi di innovazione, pronti a cambiare il proprio paesaggio materiale e psicologico, disponibili a rinnegare le opzioni predestinate e a imboccare strade nuove, talvolta rischiose. Caratteri, dicono gli studi, che segnano tipicamente l’esperienza dei trasferimenti di popolazioni.
E hanno potuto vivere, come sempre capita ai migranti, tra due culture, quella d’origine e quella del luogo di approdo. Una risorsa, questa, complessa, ma molto importante. Ieri, vedendo in televisione Mauricio festeggiare il trionfo della sua ambizione, mi chiedevo chi fosse. Se un argentino o il figlio di un italiano. Tutte e due le cose, probabilmente.
*Il presente articolo è stato pubblicato sul “Corriere del Mezzogiorno” in data 24 novembre 2015 e viene qui riprodotto su gentile concessione dell’autore