Tavola Rotonda con: Matthew Taylor, Francesco Davide Ragno e Nicola Sbetti
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Nicola Sbetti (Università di Bologna / Siss)
È il 22 giugno 1986. Stadio Azteca di Città del Messico. Si giocano i quarti di finale del Campionato mondiale di calcio maschile FIFA fra Argentina e Inghilterra. Al 54’ minuto di gioco Diego Armando Maradona si impossessa del pallone nella propria metà campo e in meno di 11 secondi percorre 52 metri, toccando il pallone 12 volte e superando 6 avversari prima di insaccare la palla in rete dopo aver, con un ultimo dribbling beffardo, evitato anche il portiere Shilton. E mentre il numero dieci argentino corre ad esultare, si compie la sua sublimazione. Maradona non è più un semplice campione, ma entra a pieno diritto nell’Olimpo degli eroi sportivi.
Per la FIFA e per tutti gli appassionati di calcio quello è il gol del secolo e non certo solo per la sua bellezza. Non si può prescindere dal contesto. Innanzitutto si tratta di una partita del più importante torneo calcistico al mondo, che si rivelerà decisiva per permettere alla Selección argentina di sollevare il trofeo. È il secondo successo per l’Albiceleste, ma rispetto a quello del 1978, vinto in casa e strumentalizzato dalla dittatura di Videla, ha un gusto completamente diverso. Quel trionfo, ottenuto a pochi mesi di distanza dalla fine della dittatura militare, per una parte significativa della popolazione argentina ha il sapore di una dignità riconquista. Conta però anche l’avversario e nel 1986 l’Inghilterra non è certo una rivale come le altre. Sono passati solo quattro anni dalla guerra delle Falkland/Malvinas e la perdita di 649 soldati argentini resta una ferita aperta. Il calcio non la può certo sanare ma sembra essere l’unico “campo di battaglia” in cui, giocandosela alla pari, l’Argentina può evitare un’altra umiliazione. Infine c’è la “mano de Dios”. Il gol che sblocca l’incontro è siglato da Maradona con un braccio ma l’arbitro non vede e convalida la segnatura. La beffa è duplice in quanto l’irregolarità, non soltanto indirizza in maniera decisiva l’andamento dell’incontro, ma penalizza, ironia della sorte, il Paese che ha inventato il concetto di “fair play”.
Non va poi dimenticato l’aspetto comunicativo. Maradona è stato tutto fuorché un personaggio piatto; ha avuto la capacità di unire la bellezza del calcio al divertimento, ma si è anche erto – non senza un certo populismo e talvolta legandosi a frequentazioni malavitose – a paladino dei poveri e degli sfruttati, nonché a ribelle anti-establishment. Da questo punto di vista, quando a fine partita dichiarò che il primo gol era stato segnato «un poco con la cabeza de Maradona y otro poco con la mano de Dios», non fu altro che un ulteriore sberleffo funzionale alla sua trasformazione in eroe sportivo. Resta comunque il fatto che senza la “mano de Dios”, non ci sarebbe mai stato il gol del secolo; non solo perché il secondo arrivò materialmente pochi minuti dopo il primo, ma soprattutto perché il contrasto fra le due diverse segnature ha rinforzato la memoria dell’una e dell’altra. Chiaramente il fatto che le reti di Maradona ai Mondiali del 1986 fossero state viste a colori e in diretta in gran parte del mondo e poi ritrasmesse con una certa continuità contribuì in maniera determinante a fissare nella memoria e rendere indimenticabile l’evento.
Se già allora quella del Mondiale 1986 venne definita “la vittoria di Maradona”, mano a mano che gli anni passano i suoi compagni di squadra – spesso descritti come “ordinari” o “mediocri”, ma in realtà fondamentali per supportare il loro capitano alla vittoria – tendono a scomparire nella narrazione di quell’impresa sportiva. Così, mentre i nomi di Batista, Burruchaga e Valdano si fanno sempre più pallidi, il mito del “Pibe de oro” accresce ulteriore fama. Del resto se Argentina – Inghilterra è passata alla storia, è dovuto anche al fatto che quell’incontro ha racchiuso in quattro minuti tutta la parabola calcistica di Maradona, fatta di genio e sregolatezza. Il gol di mano non visto dall’arbitro seguito dal gol del secolo, con il secondo che redime il primo, sono due gesti, antitesi e sintesi del mondo del calcio, che possono essere visti simbolicamente come un concentrato delle complessità di un campione tormentato. In quel giorno di trent’anni fa, tuttavia, quei fatidici quattro minuti rappresentarono soprattutto un atleta in procinto di diventa eroe e fotografarono l’esatto momento in cui l'”eroe Maradona”si caricò sulle spalle il destino di una intera comunità nazionale e – almeno per l’effimera durata dei Novanta minuti e del successivo “feel-good effect” – la condusse con successo al vertice (calcistico) mondiale.
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Francesco Davide Ragno (Università di Bologna)
Il 22 giugno 1986, Armando era tornato a casa dal lavoro prima del previsto. Aveva deciso così, perché la nazionale argentina incontrava l’Inghilterra ai quarti di finale dei Mondiali. Dopo un primo tempo scialbo e a tratti noioso, Armando aveva approfittato della pausa per coccolarsi sua figlia Marina, di appena 5 mesi. Era cominciata da poco, però, la ripresa quando al 51’ minuto Maradona scambiò con Valdano, la palla si impennò, Maradona si avventò su pallone. Fu un attimo e il portierone inglese Shilton si vide superato, la palla in rete. L’arbitro Bennaceur indicava il centro del campo: era gol! Armando, intanto, guardava attonito lo schermo della televisione e intanto imprecava: i giocatori inglesi, infatti, denunciavano un tocco di mano di Maradona. La piccola Marina, divertita, guardava la Tv con un sorriso agitando le manine in segno di gioia.
La partita, dopo i 90 minuti regolamentari, finì 2 a 1: Armando, come buona parte degli argentini sopra i trent’anni, conserva ancora nitidamente il ricordo di quel momento, quando l’Argentina batté l’Inghilterra, volò alle semifinali e poi direttamente verso la Coppa del Mondo. Era il 1986 e Maradona da grande giocatore si trasformava in eroe nazionale. Maradona, poi, ammise che quel tocco di mano c’era stato: si era trattato però non della sua mano, ma di quella di Dio. Nasceva, così, il mito della Mano de Dios, cantato e osannato ormai da trent’anni.
Maradona aveva guidato la sua nazionale nella sfida contro quella inglese. La sfida però non era soltanto sportiva. Scottava ancora nella memoria degli argentini la sconfitta militare del 1982, quando le forze armate britanniche avevano reagito all’invasione argentina delle isole Falkland. La guerra, che ne era scaturita, aveva rappresentato l’apogeo e la crisi definitiva della dittatura militare. I britannici, infatti, avevano risposto all’attacco e l’occupazione argentina era stata respinta in poco più di due mesi. Questa vicenda aveva esacerbato il già diffuso sentimento di antibritannico di cui storicamente si era nutrito (e si nutre ancora oggi) il nazionalismo argentino.
Maradona e i suoi compagni, in altre parole, furono visti come coloro che, impugnando la spada dell’argentinidad, avevano vendicato la disfatta della guerra Falkland/Malvinas ed i suoi caduti. Ma le ragioni che quel 22 giugno portarono milioni di argentini ad invadere le strade delle principali città del Paese, ubriachi di giubilo e orgoglio nazionale, erano ben più profonde.
L’Argentina del 1986 viveva una crisi economica e politica. La prima era diretta conseguenza delle criticità che l’America Latina tutta stava affrontando, dopo la crisi messicana del 1982. Le prime elezioni presidenziali post-dittatura, che avevano aperto le porte della presidenza a Raúl Alfonsín, non avevano contribuito a un cambiamento di tendenza. Il debito internazionale contratto durante gli anni della dittatura e la galoppante inflazione avevano portato il ministro dell’Economia, Juán Vital Sorrouille, a lanciare il Plan Austral, nel 1985. L’idea era quella di cambiare moneta al fine di stabilizzare i prezzi. In un primo momento, il piano sembrò funzionare ma, già a metà del 1986, i suoi effetti benefici iniziarono a rallentare. I bassi prezzi internazionali delle materie prime (che rappresentavano il traino per l’export argentino) e il costante incremento del costo del debito internazionale, esacerbati da uno scontro politico con l’opposizione peronista, evidenziarono i limiti à del piano e l’incapacità della classe dirigente di avviare, per mezzo di quello, un circolo virtuoso dell’economia nazionale. La confederazione generale dei sindacati (Cgt, diretta espressione del movimento peronista) indisse due giornate di sciopero generale nella prima metà dell’anno.
La crisi economica, del resto, altro non era che il rovescio della medaglia di una profonda crisi politica. Essa, infatti, dimostrava l’estrema fragilità di quell’idea, espressa da Alfonsín durante la campagna elettorale, secondo cui «con la democrazia si mangia, si cura, si educa». La democrazia, nell’immaginario collettivo nazionale, insomma, non era stata capace di sovvertire la crisi economica. E non solo. La democrazia argentina si dimostrava debole anche di fronte alle continue minacce, sbandierate qua e là, di un prossimo ritorno dei militari nell’agone politico. Minacce esacerbate dalla fine del processo civile che aveva condannato, nel 1985, i membri delle prime giunte militari per aver «stabilito segretamente un modo criminale di lotta contro il terrorismo». Tanto che, nel maggio del 1986, fu sventato un attentato ai danni del Presidente mentre questi stava per dare inizio alla visita III Corpo dell’Esercito presso la città di Córdoba.
La poderosa speranza e il diffuso afflato che avevano accompagnato i primi anni della transizione alla democrazia si erano rarefatti in pochi anni. Speranze che Maradona con la sua storia personale, con la sua irriverenza e con le sue gesta contro gli inglesi contribuì a riaccendere. Maradona, il piccolo prodigio nato nei sobborghi di Buenos Aires, nel ghetto di Villa Fiorito, diventava il simbolo più potente dell’immaginario nazionale argentino. Un simbolo che univa una nazione fin troppo spesso divisa in battaglie fratricide. Per certi aspetti, il giocatore ben rappresentava quel cliché dell’argentino medio, qualche anno prima descritto da Guillermo O’Donnell (in ¿A mi que me importa? Notas sobre la sociabilidad y política en Argentina y Brazil, Buenos Aires, Cedes, 1984). Il Maradona della Mano de Dios, come il tipico argentino descritto da O’Donnell, sembra sfidare le gerarchie sociali e politiche esistenti nel tentativo (vano) di non riconoscerle: egli usa tutte le armi a sua disposizione per battere una nazione (prima che una nazionale) considerata molto più blasonata e attrezzata della sua. Per altri aspetti, Maradona, figlio di una massa plebea informe, invera icasticamente quella figura del leader carismatico che il sentimento nazionalista argentino ha sempre cercato e osannato; quell’hombre-masa che si fa carico della propria comunità, ne sente i dolori, ne esprime le speranze. In politica, come nello sport, una parte della società argentina cerca da sempre, quasi bulimicamente, un uomo che sappia incarnarla più che rappresentarla; un leader capace di vivere in prima persona, sulla propria pelle, gli impeti, le passioni, le difficoltà, le sconfitte di un popolo intero.
Quel 22 giugno 1986, allo stadio Azteca di Città del Messico, nasceva un mito non solo calcistico. Maradona, utilizzando le parole della telecronaca di Victor Hugo Morales, faceva del suo paese «un pugno serrato, che grida per l’Argentina». Una sensazione già sperimentata e, per questo, percepita come rassicurante dall’ argentino medio; da quegli ‘Armando’ che, alla metà degli anni Ottanta, popolavano un Paese ferito dal recente passato dittatoriale e già a corto di speranze verso il presente democratico.
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Matthew Taylor (De Montford University)
In England, it is difficult to disentangle Diego Maradona’s reputation from the famous ‘Hand of God’ goal. In spite of becoming one of the world’s great all-time players, having played such a key role in Argentina’s 1986 World Cup triumph, Maradona is still often defined in terms of the goal that shouldn’t have been. Indeed, the most widely-read English language biography of Maradona is entitled Hand of God. Nationalist supporters still consider him to have been a ‘cheat’. The more open-minded recognise that the first goal may not have aligned with English traditions of ‘fair play’ but acknowledge that it reflected the desire of a professional sportsman determined to win. And they prefer to focus on the brilliance of the second, a goal which confirmed Maradona as an outstandingly talented player at the very top of his form.
Both at the time and since, this more measured response has tended to be drowned out by the vitriol and xenophobia of the English tabloid press. The political context was of course crucial in this. The Falklands War of 1982 was fresh in the memory and the popular press, never shy of drawing on past conflicts to fuel present sporting tensions, used it to stimulate interest in the quarter-final clash. ‘Bring on the Argies’, the Sun headlined in the week before the match. After the game, the same newspaper chose to focus on the disputed first goal rather than the magnificent second, arguing that the England team ‘had been elbowed out of the World Cup by a little cheat’. The more restrained Daily Express acknowledged both goals in its back-page headline, suggesting that England had been defeated by a ‘Genius – and a Cheat!’ Even the British Sports Minister, Dick Tracey, commented that England could ‘fairly claim a moral draw’.
Some English people continued to remember the match in this way. In 2010 a Daily Mail journalist wrote a nostalgic personal reflection on the ‘magical tournament’ in Mexico, in which he celebrated Maradona as ‘a truly iconic player for the ages’. The response from on-line readers was less than positive. ‘How can you call it a magical tournament when it was won by a cheater?’ one demanded. Another suggested that regardless of his incredible skill, Maradona was ultimately ‘a fat little cheat’ who fell over ‘at a mere glance’ and handballed his way to victory. In line with a right-wing popular press for whom cheats were always foreigners, a writer for the social research organisation Mass-Observation remembered the 1986 World Cup mainly in terms of ‘the blatant cheating’ of Maradona. ‘The general opinion in my place of work’, the respondent noted, ‘was that it had to be a Latin player who did that; the Europeans would not have done it. That is, the Northern Europeans’.
However, these reactions were extreme and far from representative. Even in the immediate aftermath of the match, most English journalists did not rant and rave but reflected instead on the superiority of the Argentine team and the weaknesses of England. Writing in the Guardian, David Lacey noted that England had simply not been good enough ‘to survive against a better side possessing the outstanding player of the tournament’. Moreover, those who had branded Maradona a ‘cheat’ needed to remember ‘that in the hard world of professional football players often try to get away with things in the hope that the referee won’t notice’. Lacey then reminded readers of a similar goal scored by England against Denmark in 1978 and Scotland’s Joe Jordan ‘kissing the hand that led to the award of a penalty’ against Wales in a crucial World Cup qualifying match. ‘It is not exactly the Corinthian image of the game’, Lacey concluded, ‘but it is reality’.
The reaction of the England manager and a number of his players was equally measured. Bobby Robson exemplified a different type of patriotism to that of the popular press. He felt that the England team might have gone further in the competition but blamed injuries and bad luck rather than Maradona. And he was clear that he would not have complained had an England player similarly ‘stuck out a hand to push the ball into the net’. For England forward Gary Lineker, it was the officials rather than Maradona who bore the responsibility for England going out of the World Cup. ‘I get over things like that quite quickly’, he told the BBC World Service in 2012, ‘it was just one of those things’. Like Lineker, midfielder Steve Hodge was calm enough after the match to recognise that he had shared the pitch with a truly great player. He swapped shirts with Maradona, much to the chagrin of one or two of his less-forgiving teammates. It was a decision that has probably defined Hodge’s career more than anything else; his autobiography, for example, is simply called The Man With Maradona’s Shirt.
Pablo Alabarces, Alan Tomlinson and Chris Young argued in 2001 that the 1986 match is regarded as ‘a bitter travesty of justice’ in England. But there is actually little evidence of this. While the English press positioned Argentina as the main foreign foe when the two countries met again at the 1998 World Cup in France, few blamed England’s eventual defeat on ‘Argentinian deceit’, despite the fact that Diego Simeone later confessed he had attempted to get David Beckham sent off. The ‘Hand of God’ was one of a number of past narratives which framed English newspaper coverage. But in 1998, as in 1986, inward reflection on English inadequacies was often more prominent than knee-jerk jingoism. And while memories of the ‘Hand of God’ have not disappeared, thirty years on the ‘Goal of the Century’ is as widely acknowledged in England as it is across the world. In 2002, the UK public voted Maradona’s performance in that match as the 6th ‘Greatest Sporting Moment’ in history in a poll conducted by Channel 4. Even in England, Maradona’s status as a ‘genius’ stands alongside more narrow-minded perceptions of him as a ‘cheat’.