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Fidel Castro, l’ultimo Re Cattolico

Di Loris Zanatta (Università di Bologna)

Con Fidel Castro se ne va l’ultimo Re Cattolico. Ha vissuto tanto, ancor più ha parlato. Oltre a viverla, la sua vita l’ha narrata; ha voluto plasmare sia la storia sia la memoria: in comizi a reti unificate, adunate di piazza, libri e interviste. Ripetitivo e ossessivo, amava la manipolazione. Conosceva la massima di Goebbels: una bugia ripetuta, diventerà realtà. Giurò sempre che a Cuba non si torturava, non c’era più razzismo, non si addestravano guerriglie. E così via. Tutto falso, ma i devoti gli credevano e gli credono. I devoti, per l’appunto, la fede: Fidel Castro passerà alla storia come uno dei grandi leader carismatici prodotti dal XX secolo, epoca di transizione dal mondo religioso al mondo secolare. Fondatore di una religione secolare, imposta come religione di Stato a Cuba, Castro fu Re e Pontefice: tutto in lui trasudava dogmatismo etico, ogni suo parola era di apostolato della sua dottrina, di giudizio sul bene e il male, di epica lotta tra apocalissi e redenzione. Guerra, lotta: tali erano le parole che ne dominano il linguaggio. A differenza degli altri Pontefici, però, Castro ha potuto creare a sua immagine e somiglianza la società che immaginava, la Gerusalemme dove il popolo eletto avrebbe trovato salvezza dai mali contro cui puntava il dito: individualismo, egoismo, consumismo, indisciplina, gioco, sesso, droga. Le sue litanie contro il vizio sembravano lettere pastorali. La sua longeva popolarità si deve proprio a questo: alla capacità di ergersi, con più cultura e istrionismo di chiunque altri, a Savonarola dei nostri tempi, a grande moralista in guerra contro la civiltà occidentale, la democrazia liberale, l’economia capitalista. Ciò ne fatto un mito, alimentato da eserciti di devoti più per quello che rappresentava che per quello che era. Il prezzo l’hanno pagato i cubani. La sua Gerusalemme, infatti, è un fallimento storico, una riduzione gesuitica autarchica e spartana che fabbrica inefficienza e povertà, privilegi e autoritarismo; dove l’altra faccia dell’imposizione fin dalla più tenera infanzia dei valori rivoluzionari è la soppressione del dissenso, degli spiriti liberi, di tutto ciò che evoca originalità, creatività, bellezza, ascesa sociale. Ben pochi devoti castristi che vivono nelle società occidentali sopporterebbero la vita del cubano medio.

Per capire Castro è sbagliato partire dai classici del marxismo. Le radici del giovane Fidel stanno in quelle del burbero padre, nella Galizia profonda, rurale e cattolica che figliò un altro Caudillo. Da lì e dai suoi dodici anni nei collegi gesuiti, anni di messa quotidiana, ritiri spirituali, discorsi falangisti e dottrina tomista, viene la visione castrista del mondo, il filtro attraverso il quale interpretò il retaggio schiavista e ispanico dell’Oriente cubano, dove crebbe. Fidel, notò più d’uno, era il più galiziano dei cubani. Né nell’adolecscenza  né all’università dell’Avana, Fidel conobbe mai due cose. La prima è il lavoro; foraggiato dal padre, Castro non lavorò mai, non si misurò coi problemi dell’uomo medio; la seconda è la tradizione dell’illustrazione, il visione liberale del mondo. Tale visione, sua nemica di tutta la vita, gli era estranea e ostile come lo era sempre stata della tradizione antilluminista della cattolicità ispanica. Su tale sfondo, la sua scoperta del marxismo e la fede con cui l’abbracciò non sono strani: un’intera generazione di cattolici latinoamericani passò allora dall’utopia fascista a quella comunista. Per essa, il comunismo era un’eresia cristiana, il coerente sviluppo dei precetti evangelici. Proprio così descrisse Cuba un intellettuale peronista nei primi anni ‘60: la società più prossima all’ideale evangelico.

Scaltro e intelligente, impetuoso e megolamane, Fidel non avrebbe certo ammesso simili origini. Il comunismo era il futuro, ne era certo; la storia aveva leggi e le leggi della storia la spingevano verso il comunismo. La sua missione era dunque provvidenziale e lui un Messia. Tale fu lo spirito che trasmise ai cubani nei pazzi anni ’60, quando tutto sembrava possibile. Scommise allora sulla liberazione delle forze produttive: Cuba diverrà il paese più ricco al mondo, promise. Intanto imponeva la sua pedagogia bigotta e mentre tanti rivoluzionari da salotto ne celebravano le gesta, lui mandava al gulag gli omosessuali e chi suonava i Rolling Stones. Ma più che ascendere al cielo Cuba piombò nel caos e nella miseria. La famosa zafra da 10 milioni di tonnellate di zucchero del 1970 fu un clamoroso flop cui tutto era stato sacrificato. Un governo normale si sarebbe dimesso. Ma non un Re Cattolico. Un sacerdote nicaraguense giunse allora sull’isola e sentenziò: tutti qui sono poveri; regna il vangelo. La Rivoluzione era già finita: al sogno di prosperità subentrò l’amministrazione della povertà e Castro si dedicò alla crociata contro l’Occidente. Nulla come l’ottusa politica statunitense di aggressione regalava a Castro tale opportunità. Così fu negli anni ’70: le sovvenzioni sovietiche tenevano a galla l’economia cubana e Castro girava il mondo e mandava truppe in Africa ergendosi a campione del Terzo Mondo.

Cuba era il Paradiso, mi disse un medico che la visitò allora. Sarà, ma non per i cubani, se un giorno del 1980, quando Castro ritirò la protezione a un’ambasciata in cui s’erano introdotti a forza alcuni esuli, mezza Cuba cercò di entrarvi. L’isola si sarebbe svuotata come una vasca da bagno cui sia tolto il tappo se da Washington non fosse giunto lo stop. Fu il grande esodo del Mariel: sarà che in Paradiso si muore di noia. Fu allora, quando la democrazia tornava in America Latina e Gorbacev scuoteva  le basi del mondo comunista, che Fidel tornò alle radici: la dottrina cattolica, disse a un sacerdote brasiliano, è al 90% uguale ai principi della rivoluzione. Tale era il suo ego da non ammettere che le parti erano invertite, ma la sostanza non mutava: lì, nella matrice cattolica ispanica, nell’idea organica che subordina l’individuo al tutto, che nel pluralismo addita una minaccia dell’unità organica, che aborre la democrazia liberale e il mercato, stava l’anima della rivoluzione cubana. Difatti passò anche Gorbacev, coloro che a Cuba vi avevano puntato finirono dinanzi al plotone d’esecuzione e tutto rimase com’era: cominciava l’ennesima crociata, il Periodo Speciale.

Chiuso il rubinetto sovietico, negli ’90 il Re si trovò nudo: l’economia di Cuba era un pianto, la produttività infima, l’etica del lavoro insesistente, gli incentivi a produrre nulli, la corruzione dilagante, il nepotismo e i privilegi delle élite insopportabili. I cubani pativano la fame, fuggivano e morivano a migliaia nello stretto della Florida, la carenza di vitamine causò epidemie; perfino sanità e scuola, fiori all’occhiello del regime, andarono a picco. Ma Castro, l’uomo che non sapeva perdere, tornò all’antico armanentario: al sacrificio seguirà la redenzione, alla sofferenza la gloria. Prese a parlare d’altro, a commemorare le sue gesta storiche, a inneggiare ai trionfi della rivoluzione di cui riamneva ben poco. Non gli rimase allora che aprire il paese ai turisti e al capitale estero. Temeva il contagio del suo popolo puro, disse più volte, ma non c’erano alternative. Con l’apertura tornarono i vizi che diceva di avere bandito e anche un po’ di prosperità; ma anche l’ovvia diseguaglianza: perché alcuni avevano dollari e altri no, parenti all’estero oppure no, perché c’era chi aveva amici nel governo e nel partito e chi non conosceva nessuno. Il mercato espulso dalla porta rientrava dalla finestra; poiché però in teoria non era ammesso, nessuno lo governava e tutti ne spremevano ogni goccia per tirare avanti. Tra realtà e dottrina s’aprì un abisso incolmabile.

Da allora, la storia di Cuba si è trascinata su tali binari, imprigionata dal fascino del suo Monarca. Suonerà cinico, ma il titolo con cui Libération ne ha annunciato la fine coglie nel segno: E’ morto troppo tardi. Nel frattempo, sessanta anni dopo la rivoluzione, paesi che all’epoca avevano indicatori socio economici assai inferiori a quelli cubani, oggi la surclassano: non solo quelli iberici, ma molti anche in America Latina, come Cile e Costa Rica, che essendo banali democrazie liberali non attraggono devoti.

Finché il vecchio Patriarca è rimasto allerta, Cuba ne seguiva gli umori: il suo ideale era in fondo quello di una società cristiana e andava perseguito contro venti e maree, per duro, autoritario e inefficace che fosse. Solo quando la sua impraticabilità diveniva manifesta, era possibile deviare un po’, salvo fare marcia indietro appena le timide aperture avessero minacciato di infettare il pueblo: quello nel cui nome Fidel sempre parlò, da cui era così diverso e distante; come un Re cattolico.

Questo articolo è stato pubblicato su Clarin del 27 novembre 2016

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