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L’ora più buia: il ritratto di un uomo solo al comando

L’ora più buia (Darkest Hour) regia di Joe Wright (2017).

Di Giulia Guazzaloca (Università di Bologna)

È l’immagine di un uomo solo e controverso quella di Winston Churchill che ci restituisce il film di Joe Wright. Un uomo testardo e coraggioso ma lacerato da dubbi e paure, burbero e prepotente ma capace di gesti di grande tenerezza, collerico e al tempo stesso affettuosissimo con la moglie Clementine e coi figli, pieno di manie, bevitore accanito e oratore straordinario. Un Churchill, insomma, molto diverso da quello che spesso trasmettono i manuali di storia: l’indomito eroe della Seconda Guerra mondiale, il gigante del XX secolo dal piglio volitivo e senza incertezze, l’uomo che nel 2014 la BBC ha proclamato il più grande inglese di tutti i tempi. In questo film invece, dove il leader tory è interpretato da un bravissimo Gary Oldman, ci appare come un uomo tormentato e solo, consapevole – come gli dice la moglie – di portare sulle sue spalle il peso del mondo intero e di essere l’agnello sacrificale scelto dal re e dal Parlamento in vista del quasi certo successo della campagna militare dei tedeschi in Francia.

Una certezza, però, Churchill ce l’aveva e già da prima che l’Europa precipitasse nella guerra: Hitler non era un dittatore, un conquistatore o un «comune megalomane» come quelli che la storia aveva mostrato fino a quel momento; il regime nazista traeva forza dal «perverso piacere della persecuzione», era «una mostruosa tirannia insuperata nell’oscuro e doloroso catalogo dei crimini umani». E bisognava combatterla al prezzo di «sangue, fatica, lacrime e sudore»; così disse nel celebre discorso del 13 maggio 1940 alla Camera dei Comuni, presentandosi per la prima volta da capo del governo. In quel momento le sue parole non suscitarono grandi entusiasmi, specie nell’establishment conservatore che, nella successione a Neville Chamberlain, gli avrebbe preferito il ministro degli Esteri lord Halifax. Dal film emerge molto bene l’isolamento di Churchill all’interno del suo stesso partito; la sua storia politica, del resto, lo aveva reso più un «indipendente» che un autentico tory, poco amato nelle file dei conservatori. Strenuo paladino del liberoscambismo, aveva abbandonato il partito conservatore a causa della campagna tariffaria e partecipato ai governi liberali di inizio secolo; si era poi allontanato anche dai liberali nei primi anni Venti per via di una politica a suoi occhi troppo filo-laburista, rientrando dopo vent’anni nel partito conservatore e ottenendo la carica di cancelliere dello Scacchiere nel governo di Stanley Baldwin. Continuò comunque ad opporsi a molte scelte della leadership del suo partito, dalla questione dell’abdicazione di Edoardo VIII (Churchill era contrario) alla politica di «pacificazione» nei confronti del regime nazista.

Fiero oppositore dell’appeasement, aveva definito una «sconfitta totale e assoluta» gli accordi di Monaco del settembre 1938 che avevano consentito a Hitler di annettere una parte della Cecoslovacchia; una piccola rivincita la ottenne già nelle settimane successive, quando svanì l’iniziale euforia per il presunto successo della conferenza e anche i deputati laburisti si espressero in maggioranza a favore del riarmo. Fu quasi scontato, quindi, che la scelta ricadesse su di lui dopo che, il 10 maggio 1940 lo stesso giorno dell’avvio della «guerra lampo» dei nazisti contro la Francia, Chamberlain aveva rassegnato le dimissioni; i laburisti erano disposti ad entrare in un governo di coalizione e non erano contrari a che lo guidasse Churchill, il quale possedeva effettivamente le credenziali migliori per governare il paese in quel delicatissimo frangente. Più tardi scriverà che, ottenuto l’incarico, capì che il suo «destino» si era compiuto: «avevo la sensazione di sapere che cosa si doveva fare ed ero certo che sarei riuscito».

Ci riuscì ma all’inizio si ritrovò quasi completamente solo. Il 16 maggio, volato a Parigi per consultare il governo francese, lo trova costernato e pronto a lasciare la capitale; nel corso di una drammatica telefonata, anche il presidente americano Roosevelt gli fa capire di non poter essere d’alcun aiuto. Abbandonato dai suoi storici alleati, isolato all’interno del suo partito, inizialmente Churchill non era gradito neppure al re, che come primo ministro avrebbe volute il suo amico personale lord Halifax. Freddo, formale e quasi imbarazzante è l’incontro tra Churchill e Giorgio VI quando questi gli conferisce l’incarico; al timido e balbuziente sovrano il vulcanico primo ministro metteva paura – così gli confiderà durante uno dei rituali pranzi del lunedì. Ma cambiò idea già nel corso delle settimane successive, proprio mentre l’avanzata tedesca in Francia stava procedendo con grande rapidità e Halifax e Chamberlain premevano affinché si aprissero le trattative di pace con Hitler e Mussolini. È a un Churchill in vestaglia e sorpreso da quella visita che si presenta Giorgio VI per dirgli che lo avrebbe appoggiato in qualsiasi decisione avesse preso. Da questo punto di vista, il film fa emergere anche il delicato ruolo della Corona nelle moderne democrazie parlamentari: un ruolo «unificante» e simbolico che può entrare in gioco nei momenti difficili e nelle «ore più buie», ma che deve restare politicamente neutro. All’inizio infatti Giorgio VI, suo malgrado, deve attenersi alla decisione del Parlamento e nominare Churchill; quando però, di fronte all’eventualità di continuare la guerra, gli comunica il suo incondizionato sostegno, il primo ministro capisce di avere aggiunto una potente freccia al suo arco. Perno equilibratore dell’impianto istituzionale e potere di riserva nei momenti di grave impasse, il sovrano costituzionale ha perso la funzione di intervenire nell’indirizzo politico, ma conserva quella di emblema dell’unità e dell’identità nazionale. E Giorgio VI – il film non lo mostra perché si concentra su poche settimane fra maggio e giugno – se ne fece carico anche durante i bombardamenti sull’Inghilterra dell’estate-autunno 1940: decise di non lasciare Londra e di restare vicino ai suoi sudditi, nonostante fosse stato predisposto il trasferimento della famiglia reale in Canada.

Quando, con 300.000 soldati inglesi sul suolo di Francia e la Francia ormai al collasso, Churchill diede ordine al comando britannico di studiare la possibilità della ritirata in direzione di Dunkerque, in realtà non escluse di esplorare anche la possibilità dei negoziati con le potenze dell’Asse. Li considerava un errore, riteneva che qualsiasi trattativa avrebbe irrigidito le pretese hitleriane e che le richieste del dittatore sarebbero state comunque inaccettabili per gli inglesi. Dubbi e angosce però li ebbe e Wright li tratteggia con grande abilità: dubbi e angosce che tormentarono l’«uomo» Churchill in privato, da solo o con la moglie, ma non il leader politico, sempre fermo e inflessibile nei discorsi alla radio e coi membri del war cabinet. Le ultime incertezze vengono tuttavia dissipate dall’appoggio del sovrano e soprattutto da un viaggio in metropolitana – il primo della sua vita – che nella finzione cinematografica sigilla il patto tra l’anziano leader e il popolo inglese. Fa una sorta di piccolo sondaggio coi passeggeri sull’eventualità di trattare con Hitler e viene fuori che sono tutti favorevoli a continuare a combattere, anche qualora la guerra fosse arrivata sul suolo inglese. Probabilmente quel viaggio in metropolitana non c’è mai stato, ma Churchill riuscì a cogliere l’orientamento e gli umori dei cittadini britannici e se ne servì per convincere ministri e deputati a non arrendersi.

Il resto lo fecero le parole e la potenza del linguaggio. A un certo punto la sua segretaria – efficiente e devota, rimasta al fianco di Churchill per tutta la durata del conflitto – gli dice che «è bravo con le parole» e alla fine furono proprio le parole – il magistrale discorso del 4 giugno We shall fight – a convincere la Camera dei Comuni a proseguire la guerra. Costretto a riconoscere la sconfitta, Halifax fa un’osservazione significativa, con la quale si conclude il film: «ha scatenato la lingua inglese, e l’ha mandata in battaglia». Può essere letta anche come un modo per ridimensionare il successo di Churchill, ma sicuramente coglie un aspetto che non vale solo per il leader britannico e la Seconda Guerra mondiale: per chi sappia usarla, la parola può diventare un’arma potente e temibile. Tutto il film, del resto, è incentrato sulla dimensione retorica e dialettica dello scontro politico, sulla forza pervasiva del linguaggio, sulla ricerca minuziosa e quasi maniacale (da parte di Churchill) delle parole giuste da inserire nei discorsi indirizzati al paese e al Parlamento. Più che la guerra combattuta sui campi di battaglia, è la guerra delle parole quella che mette in scena Wright: i combattimenti in Francia e l’immagine delle imbarcazioni civili che permisero il rimpatrio dei soldati di Dunkerque fanno solo da sfondo a una rappresentazione i cui veri protagonisti sono un uomo solo e il vigore delle sue parole.

Tanti, ovviamente, sono gli aspetti della vita e della carriera di Winston Churchill che il film non tratta. La «battaglia d’Inghilterra», ad esempio, il suo capolavoro militare e patriottico che permise al paese di resistere ai bombardamenti tedeschi; o la sconfitta alle elezioni del luglio 1945, tanto discussa all’epoca, analizzata da storici e politologi di tutto il mondo, spesso evocata come esempio del perfetto funzionamento della regola democratica dell’alternanza. Non parla nemmeno – ma lo lascia intravvedere – del Churchill letterato e scrittore; vastissima fu la sua produzione e nel 1953 venne insignito del premio Nobel per la letteratura ma, schiacciata da quella politica, la sua carriera letteraria è rimasta a lungo nell’ombra, facendone – secondo lo storico Peter Clarke – «il più sconosciuto fra i grandi scrittori del XX secolo». Che si sia trattato di una figura complessa, poliedrica e controversa, il film comunque lo fa vedere, così come lascia intuire che sarebbe diventato «leggenda» prima ancora della morte. Morì il 24 gennaio 1965 e la regina Elisabetta gli concesse, cosa assai rara, l’onore dei funerali di Stato; la cerimonia fu seguita in televisione da 350 milioni di persone e il «Corriere della Sera» scrisse che se ne andava lo statista che aveva fatto «la storia della libertà». Se è così, quella storia è iniziata tra il 10 maggio e il 4 giugno 1940.

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