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La crisi dei profughi nella prospettiva della storia globale

Il 12 maggio 2017, nella sede nella sede dell’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo, è stato presentato Profughi, numero monografico di «Meridiana» curato da Stefano Gallo. Alla discussione, presieduta dal geografo dell’Università Orientale di Napoli Fabio Amato, hanno preso parte Elena De Filippo, presidente della cooperativa sociale DEDALUS e docente di Sociologia delle migrazioni all’Università di Napoli Federico II, l’avvocato Roberta Aria, dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, e lo storico Teodoro Tagliaferri. La presentazione si è svolta nel quadro della Giornata di studi Nuove ricerche sulle migrazioni, organizzata dal Master di I livello in Immigrazione e politiche pubbliche di accoglienza ed integrazione del Dipartimento di Scienze politiche della Federico II.

Riportiamo il testo dell’intervento di Teodoro Tagliaferri

Il profugato contemporaneo e la globalizzazione del nazionalismo

Personalmente ho imparato parecchio, e ricevuto molti e forti stimoli, da ciascuno dei nove pregevoli contributi al fascicolo monografico di «Meridiana» che sono assai lieto di potere oggi commentare e discutere con alcuni degli autori[1]. Preferisco tuttavia concentrare un po’ più analiticamente il mio intervento su un aspetto del lavoro collettaneo curato da Stefano Gallo che attiene alla sua impostazione metodologica d’insieme e che a me è sembrato di particolare novità e importanza, nonché foriero di promettenti sviluppi. Alludo al fatto che intento dichiarato di Profughi è promuovere un approccio interpretativo volto a connettere le indagini e i dibattiti relativi alla crisi dei rifugiati, con la quale l’Italia e l’Europa si sono misurate e vengono misurandosi dopo le “Primavere arabe”, con una ricognizione della presenza del profugato nella vicenda dell’Italia repubblicana a partire dal secondo dopoguerra focalizzata sulla dimensione dell’accoglienza. Si può ben dire che il team di studiosi coinvolti nell’impresa si siano fatti collettivamente carico di adempiere, o cominciare ad adempiere, in riferimento a una questione cruciale dei giorni nostri, quello che sempre dovrebbe essere il compito dello storico, ossia perseguire «la chiarezza sui problemi del presente (…) mercé la ricerca e l’intelligenza dei correlativi fatti del passato»[2].

Credo altresì che questo tentativo sia da considerare largamente riuscito, almeno nel senso che dal volume è possibile desumere un’articolata ipotesi di storicizzazione dell’attuale crisi dei profughi, sintetizzabile in cinque proposizioni:

1) la crisi presente, come del resto l’intera largamente inesplorata storia dei sistemi di accoglienza nell’Italia repubblicana, sono da inquadrare nel più vasto contesto di una specifica storia del profugato contemporaneo di portata prima europea, poi globale, e i cui caratteri originali (rispetto ad anteriori periodi della storia del profugato) prendono a definirsi durante «il secolo europeo delle migrazioni forzate», e più particolarmente nel quarantennio compreso tra le guerre balcaniche e la morte di Stalin[3];

2) il profugato contemporaneo, nelle sue molteplici sfaccettature e fasi, non solo possiede una sua specifica storia, ma si è rivelato fenomeno in grado di segnare della propria impronta la storia generale delle società ospitanti;

3) storicizzare il profugato comporta la riattribuzione ai singoli profughi, profughe e gruppi di profughi dell’attributo della «agentività» («agency»)[4], ossia della soggettività propria dell’attore storico e della personalità umana in genere;

4) la storicizzazione del profugato, e in special modo un’adeguata eziologia della crisi umanitaria, appare propedeutica e funzionale alla sua ripoliticizzazione, ossia alla formazione del giudizio etico-politico sulla crisi umanitaria, che a sua volta influenza necessariamente l’atteggiamento di base della società ospitante verso i flussi dei richiedenti asilo che se ne generano;

5) la fase che la presente crisi dei rifugiati attraversa appare suscettibile di storicizzazione anche nel senso che, alla luce della constatabile incidenza delle corrispondenti fasi delle crisi del passato sulle traiettorie percorse da profughi e comunità di profughi oltre il momento dell’attraversamento dei confini e del primo inserimento nei sistemi di accoglienza, può essere considerata come un momento formativo delle storie future tanto dei nuovi profughi quanto delle nostre società ospitanti.

Data l’ovvia impossibilità di esaminare anche solo con un minimo del necessario approfondimento una costellazione concettuale di tale ampiezza e complessità nello spazio di una presentazione, vorrei soffermarmi su un tratto della definizione del profugato contemporaneo abbozzata da Gallo (la cui impostazione generalmente condivido) che concerne la sua cornice macrostorica e che mi pare possa giovarsi di un’ulteriore messa a fuoco operata nella prospettiva della storia globale.

Ritengo si debba sottoscrivere la tesi che il profugato contemporaneo, in ciò che ha di distintivo rispetto a epoche antecedenti e di durevole fino ai nostri giorni, prenda forma nel corso di un primo periodo della sua storia – il periodo europeo –, che Gallo, riflettendo peraltro un largo consenso della storiografia internazionale, identifica con la lunga sequenza di esodi, espulsioni, deportazioni talora sfocianti in massacri e stermini, genocidi, scambi coatti di popolazioni, che sconvolge Europa e Medio Oriente tra la metà del XIX e la metà del XX secolo. I suoi caratteri di novità si profilano però in maniera più netta, e tale da condizionare decisivamente la genesi e lo sviluppo dell’istituto giuridico del rifugiato, all’indomani della Prima guerra mondiale. Sotto il profilo eziologico, la novità epocale e dirompente consiste nell’aggiungersi del nazionalismo agli altri e più antichi fattori delle migrazioni forzate[5].

Come è di recente tornato a puntualizzare Dirk Hoerder, il nazionalismo opera come forza generatrice di flussi di profughi in un settore geostorico ben determinato del Vecchio Continente, o piuttosto di Europa e Medio Oriente: quello occupato dalle compagini imperiali degli Asburgo, degli Hohenzollern, dei Romanov e degli Ottomani. E il fenomeno generatore dei profughi e delle deportazioni consiste dunque, propriamente, nella «nazionalizzazione»[6] degli Stati dinastici multiculturali europei, e poi degli stessi Stati (pluri)nazionali loro successori. Questa precisazione mi pare opportuna perché ci consente di cogliere meglio come il periodo europeo delle migrazioni forzate si prolunghi, in realtà, oltre il 1953. La «frantumazione territoriale» che negli anni Novanta «accompagnò l’estinzione dell’ultimo dei quattro imperi continentali europei – quello della Russia», non fu altro, come ha ben scritto Tony Judt, che «un epilogo posticipato del processo di formazione statale postimperiale che aveva fatto seguito al crollo degli altri tre imperi: quello della Turchia ottomana, dell’Austria asburgica e della Germania guglielmina»[7]. Ed è in tale contesto che va collocata la crisi jugoslava che una così grande importanza riveste nella storia recente del profugato nell’Italia repubblicana[8].

Credo inoltre sia utile leggere in chiave storico-dinamica il processo di nazionalizzazione della carta politica degli spazi imperiali generatore di profughi. Esso può cioè venire visto come il risultato dell’estensione di una particolare variante del principio di nazionalità – la variante che prescrive che Stato e nazione siano coestensivi – in territori a popolazione mista dove la sua applicazione in forma radicale alimenta progetti e pratiche di omogeneizzazione etnica miranti a realizzare un «un-mixing of peoples»[9]. Questo approccio permette di leggere il secolo europeo delle migrazioni forzate come la fase iniziale di un trend macro-storico più generale e durevole che può definirsi la globalizzazione del nazionalismo[10].

L’ulteriore espansione, nella fase successiva, del campo di applicazione della medesima variante del principio di nazionalità agli spazi extra-europei occupati dagli imperi coloniali europei, costituenti anch’essi territori a popolazione mista, doveva comportare che sia la decolonizzazione sia, soprattutto, l’esistenza politica degli Stati successori post-coloniali, dovessero svolgersi anch’esse all’insegna di periodiche crisi umanitarie riconducibili alla logica dello «smescolamento delle nazioni». E’ questa infatti, a ben guardare, la natura prevalente dei conflitti post-coloniali (come la guerra civile nigeriana della fine degli anni Sessanta[11]) che plasmano lo sviluppo del profugato contemporaneo dopo la temporanea interruzione, alla metà del Novecento, del suo ciclo europeo. Va notata d’altronde la sincronia tra decolonizzazione e avvio del ciclo post-coloniale sul finire degli anni Quaranta nei due casi macroscopici della Palestina e dell’India britannica, dove il disimpegno della Gran Bretagna (potenza mandataria nel primo caso, potenza coloniale nel secondo) coincide sostanzialmente con lo scoppio della guerra arabo-israeliana e la partizione del subcontinente asiatico, e dunque con crisi di profughi di amplissime proporzioni e conseguenze derivanti anch’esse dalla globalizzazione del nazionalismo – una constatazione che dovrebbe forse indurci a riconsiderare, antedatandola alquanto, la periodizzazione del profugato post-coloniale.

In ogni caso, la linea di sviluppo della globalizzazione del nazionalismo che ho sommariamente cercato di abbozzare ci pone di fronte al seguente interrogativo – se, e in che modo, i conflitti retrostanti l’odierna crisi dei rifugiati (che hanno investito Stati multietnici successori dell’ordine coloniale, quali la Siria, l’Iraq, la Libia) possano essere messi in relazione con il dispiegamento di questo trend macrostorico e con sue eventuali accelerazioni e riconfigurazioni. Si tratta di un interrogativo ovviamente cruciale ma che debbo qui limitarmi a formulare. Letta nell’ottica globale che si è suggerita, la storia del profugato e dell’accoglienza nell’Italia repubblicana può essere forse scritta, almeno in considerevole parte, nei termini dei diversi cicli geostorici nei quali si è venuta articolando la globalizzazione del nazionalismo: il rimpatrio degli esuli fiumani e l’esodo dall’Africa su cui verte il bel saggio di Patrizia Audenino appaiono collegati, rispettivamente, alle ultime propaggini del primo ciclo post-imperiale europeo e alla decolonizzazione[12], l’accoglienza dei profughi jugoslavi al secondo ciclo post-imperiale europeo[13], l’odierna crisi dei rifugiati a un’ulteriore fase del ciclo post-coloniale[14], destinata con ogni probabilità a continuare ad avere tra i principali epicentri il continente africano e  la sua artificosa geografia politica, con i quali il nostro Paese potrebbe essere dunque entrato in un inedito rapporto di interazione organica su scala e di carattere transregionale[15].

Storicizzare per ripoliticizzare

Vorrei dedicare qualche passaggio conclusivo allo sviluppo di un altro spunto metodologico che mi è sembrato di potere trarre dalla lettura di Profughi e al quale, nell’elencazione che ne ho proposto in precedenza, ho dato una formulazione che potrà essere risultata agli ascoltatori alquanto criptica. Alludo all’idea che una migliore comprensione delle radici storiche della crisi umanitaria sia in grado di influire sulla cultura dell’accoglienza favorendo una ripoliticizzazione della questione dei profughi.

Più di un partecipante al numero monografico sembra condividere il convincimento e la preoccupazione che di recente, nei confronti di profughi, richiedenti asilo e rifugiati, sia invalsa una tendenza alla depoliticizzazione che conduce a vedere in loro le vittime passive di una qualche catastrofe contingente, i portatori di bisogni piuttosto che i titolari di diritti, i rappresentanti di una condizione che non consente alla prestazione umanitaria di rivestirsi – al di là del generico sentimento di chi vi è coinvolto di stare lavorando per un ideale filantropico – del significato soggettivo di impegno a favore di una ben identificabile causa internazionale, e alla quale si accompagna un basso grado di consapevolezza riguardo alle ragioni profonde, ovvero al retroterra storico, delle correlative esperienze di fuga[16]. Silvia Salvatici, in particolare, intervistata da Michele Colucci, istituisce un opportuno confronto tra le crisi recenti e la crisi jugoslava, dove permaneva viva la coscienza del nesso tra profugato e un evento di alto significato storico-politico quale la ricomparsa della guerra sul suolo europeo[17].

Sulla natura della risposta della società civile italiana alla crisi jugoslava si sofferma Marzia Bona nel suo assai interessante contributo sulla rete di accoglienza diffusa messa in piedi nel nostro Paese per i profughi balcanici negli anni Novanta. L’autrice illustra come alla base di un’iniziativa così originale e creativa, fondativa dell’odierna rete SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati)[18], e della mobilitazione di energie necessaria per farla funzionare, contribuissero vari fattori, tra cui le culture e le forme di attivismo politico confluite nell’alveo di un movimento pacifista italiano ancora sufficientemente vitale. Bona sottolinea altresì l’esistenza di peculiari condizioni di «vicinanza cognitiva» alla tragedia jugoslava capaci di infondere ispirazione e vigore nelle pratiche dell’accoglienza dal basso prestata alle sue vittime[19]. Ma alle molteplici circostanze favorevoli che Bona elenca – dalla mera prossimità geografica alla percezione che la Jugoslavia fosse un paese amico – credo ne vada aggiunta anche un’altra.

Occorre infatti ricordare che in Italia, nei primi anni del conflitto, in parti non irrilevanti dell’opinione pubblica e non solo tra i ranghi delle associazioni cattoliche, sindacali, pacifiste, non violente, che animano la rete dell’assistenza decentrata, è diffusa una valutazione di quanto sta accadendo sull’altra sponda dell’Adriatico che vi vede uno scontro epocale tra antitetiche opzioni etico-politiche e che detta loro una presa di posizione – idealistica e utopica, se si vuole, al paragone con ciò che è effettivamente accaduto – a favore di una soluzione del problema jugoslavo alternativa a quella nazionalista alla fine largamente prevalsa, perché ispirata a un’interpretazione del principio di nazionalità opposta a quella globalizzatasi nel corso dell’età contemporanea. Secondo tale diversa interpretazione, la libertà nazionale, nella forma limitata del diritto di autogoverno e dell’autonomia culturale, è compatibile con la sussistenza dello Stato multinazionale, che è anzi il solo a poterne garantire l’universale godimento. Proprio le crisi extra-europee dei nostri giorni ci rendono sempre più coscienti di quante Jugoslavie ci siano in giro per il mondo e di quale gravosa responsabilità ricada sugli europei per non avere saputo impedire che la nuova crisi post-imperiale degli anni novanta ripetesse, troppo sovente, il copione del «secolo delle migrazioni forzate».

A me sembra che la carenza di un’analoga percezione dei principi etico-politici universali che sono in gioco accanto ai più evidenti valori filantropici nelle crisi extra-europee o post-coloniali (una carenza aggravata – certo – dalle loro sempre più frequenti, pervasive e ingombranti complicazioni religiose) produca quell’effetto di esoticizzazione che porta a non vedere altro, nel profugo, che la vittima di una violenza assoluta, demoniaca, a sua volta astorica. E’ sperabile – mi sia consentito di terminare su una nota sanamente corporativa – che una storiografia capace di delineare in termini più realistici e veicolare all’opinione pubblica il significato globale di tali crisi possa recare un modesto contributo alla rivivificazione della parte più nobile della tradizione del cosmopolitismo e dell’umanitarismo e della cultura dell’accoglienza italiani ed europei[20].

[1] Profughi, a cura di Stefano Gallo, «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», XVII (2016), 86, pp. 21-188.

[2] Cosi Benedetto Croce in Nuove pagine sparse, II, Metodologia storiografica, osservazioni su libri nuovi, varietà, Napoli, Ricciardi, 1948, p. 50.

[3] Stefano Gallo, Profughi e accoglienza. Interpretazioni e percorsi di ricerca, in Profughi, cit., § 1, pp. 21-26, che si richiama ad A. Ferrara, N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa, 1853-1953, il Mulino, Bologna 2012.

[4] Arjun Appadurai, Archivio pubblico, migrazioni e capacità di aspirare (trad. dall’inedito inglese di Piero Vereni), in «Meridiana», XVII (2016), 86, pp. 9-19. Questo testo dello studioso indo-americano, apparso in lingua tedesca con il titolo Streben nach Hoffnung. Das Narrativ der Flucht und die Ideologie des Nationalstaats, pur non facendo propriamente parte della sezione monografica, ha un’evidente attinenza e consonanza con il resto del fascicolo.

[5] Per un primo inquadramento della problematica storiografica del profugato, oltre che alla letteratura citata nell’aggiornato saggio introduttivo di Gallo, ci si può utilmente riferire a Peter Gatrell, The Making of the Modern Refugee, Oxford, Oxford University Press, 2013.

[6] Dirk Hoerder, Migrations and Belongings, in A World Connecting, 1870-1945, edited by Emily S. Rosenberg, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2012, p. 548 (trad. it. di Piero Arlorio in Storia del mondo, V, I mercati e le guerre mondiali, 1879-1945, Torino, Einaudi, 2015, p. 615).

[7] Postwar: A History of Europe since 1945, London, Pimlico, 2007, p. 638 (trad. it. di Aldo Piccato, Bari-Roma, Laterza, 2017, p. 786, lievemente ritoccata).

[8] Marzia Bona, Gli anni novanta: una rete di accoglienza diffusa per i profughi dell’ex Jugoslavia, in Profughi, cit., pp. 97-119.

[9] Hoerder, Migrations and Belongings, cit., pp. 548, 552 (trad. it. cit., pp. 616, 621, dove la medesima espressione inglese, che indica l’atto dello “smescolamento”,  è resa assai infelicemente, nella prima occorrenza, con «“non-mescolanza delle popolazioni”», nella seconda con «“rimescolamento delle popolazioni”»).

[10] Globalisation of Nationalism. The Motive-Force behind Twenty-First Century Politics, edited by Liah Greenfeld, Colchester, The European Consortium for Political Research Press, 2016.

[11] Le profughe, i profughi, l’accoglienza: un percorso storico. Incontro con Silvia Salvatici,  a cura di Michele Colucci, in Profughi, cit., p. 184.

[12] Memorie ferite: esuli e rimpatriati nell’Italia repubblicana, ivi, pp. 79-96. Le categorie di profughi considerati da Audenino rientrano in parte anche nel campo tematico dei contributi – focalizzati più specificamente sull’immediato secondo dopoguerra – di Matteo Sanfilippo (I campi in Italia nel secondo dopoguerra, ivi, pp. 41-56) e di Giacomo Canepa (Rifare gli italiani. Profughi e progetti per il welfare, 1944-47, ivi, pp. 57-78).

[13] Bona, Gli anni novanta, cit.

[14] Mattia Vitiello, La crisi dei rifugiati e il sistema europeo comune di asilo: che cosa non ha funzionato?, ivi, pp. 145-165; Sergio Bontempelli, Da «clandestini» a «falsi profughi». Migrazioni forzate e politiche migratorie italiane dopo le Primavere arabe, ivi, pp. 167-179.

[15] Manlio Graziano, Frontiere, Bologna, il Mulino, 2017, pp. 130-136. E’ difficile resistere alla tentazione di scorgere nella decisione del governo Gentiloni di inviare forze militari in Niger, posteriore di qualche mese alla redazione di questo intervento (dicembre 2017), appunto il segnale di una riacuita e rinnovata consapevolezza della centralità dello scacchiere africano per l’interesse nazionale italiano.

[16] Gallo, Profughi e accoglienza, cit., § 2, pp. 26-29.

[17] Le profughe, i profughi, l’accoglienza, cit., p. 182.

[18] Chiara Marchetti, Le sfide dell’accoglienza. Passato e presente dei sistemi istituzionali di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati in Italia, in Profughi, cit., pp. 121-143.

[19] Bona, Gli anni novanta, cit., p. 109.

[20] Desidero precisare che la mia sottolineatura delle cause più in senso stretto politiche delle crisi dei rifugiati afro-asiatiche non intende contrapporsi, ma mira a integrare diagnosi, come quella di cui in Profughi si fa portavoce Salvatici, che pongono in risalto il ruolo svolto da fattori climatici, ecologici ed economici nella produzione di fenomeni quali i «profughi ambientali» (Le profughe, i profughi, l’accoglienza, cit., pp. 187-188).

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