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La prospettiva globale nell’insegnamento universitario della storia contemporanea

Il 23 gennaio 2018, nella sede del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Napoli Federico II, è stato presentato il libro di Lucio Caracciolo e Adriano Roccucci Storia contemporanea. Dal mondo europeo al mondo senza centro (Le Monnier – Mondadori 2017). Alla discussione hanno preso parte – oltre agli autori e al dottor Alessandro Mongatti, editor e responsabile di redazione del settore Università, Periodici e Varia della casa editrice Mondadori Education – il geografo Vittorio Amato e lo storico Teodoro Tagliaferri.

La presentazione si è svolta nel quadro delle giornate di incontri Libri. Produrli, pubblicarli, studiarli (22-23-24 gennaio 2018, https://www.unina.it/-/15757447-libri-produrli-pubblicarli-studiarli).

Riportiamo di seguito il testo dell’intervento di Teodoro Tagliaferri.

1. Il volume sulla storia del mondo contemporaneo di cui sono coautori Lucio Caracciolo e Adriano Roccucci recentissimamente pubblicato da Le Monnier Università (che è un marchio editoriale di Mondadori Education) si presta particolarmente bene a esemplificare gli intenti delle giornate del libro promosse dal Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Napoli Federico II. Ambizione complessiva dell’iniziativa è di gettare uno sguardo d’insieme sulla varia presenza del libro nell’orizzonte della cultura accademico-scientifica contemporanea, in particolare nell’ambito delle scienze politiche, sociali e umane, mettendo a frutto a tale scopo quel consistente e forse non del tutto atipico campione della produzione libraria odierna che è costituito dai libri realizzati negli ultimi pochi anni da membri del Dipartimento. Abbiamo però previsto che un paio di sessioni venissero riservate alla presentazione di opere di studiosi esterni al Dipartimento da ritenersi di particolare interesse ai fini della ricognizione che ci prefiggiamo, anche e non da ultimo in vista delle loro potenziali implicazioni pluridisciplinari. Il piccolo team incaricato di organizzare la tre giorni ha subito convenuto che uno di questi più specifici spazi di discussione potesse essere proficuamente dedicato all’innovativo manuale universitario di storia contemporanea nato dalla collaborazione – di carattere appunto in certo senso interdisciplinare – tra Caracciolo e Roccucci[1].

Dei due componenti del tandem Roccucci, che insegna Storia contemporanea all’Università di Roma Tre, è quello che in maniera più spiccata presenta il profilo dello storico professionale – egli è anzi da alcuni anni il direttore del «Mestiere di storico», la rivista della società scientifica che raduna i contemporaneisti italiani –, sebbene la sua fisionomia di studioso si distacchi dallo standard prevalente, non solo in Italia, per l’ampiezza e la peculiare articolazione sia tematica che geostorica dei suoi contributi specialistici, che spaziano dalla storia italiana alla storia russo-sovietica, e dalla storia politica e culturale alla storia ecclesiastico-religiosa e alla storia delle relazioni internazionali: basti ricordare a titolo di esemplificazione che il suo penultimo libro, Stalin e il patriarca, è una ricostruzione dei rapporti tra Chiesa ortodossa e Stato sovietico nel quarantennio successivo alla rivoluzione d’ottobre[2]. Lucio Caracciolo, che è docente di Studi strategici e di Geopolitica rispettivamente alla LUISS di Roma e alla San Raffaele di Milano, Head of Geopolitics dell’agenzia indipendente di analisi e consulenza geopolitica e macrofinanziaria globale Macrogeo di Londra e fondatore e direttore di «Limes», la rivista italiana di geopolitica, ha affiancato alla sua vasta attività di studioso, saggista e pubblicista in queste materie, contraddistinta da un’attenzione costante per la dimensione e la profondità storica delle questioni del presente, una serie di lavori di tenore più strettamente storiografico, a cominciare dal suo primo libro del 1986 sull’origine delle due Germanie[3].

Come accennato, nella classificazione più o meno canonica dell’editoria storiografica il volume di Caracciolo e Roccucci appartiene alla categoria dei manuali universitari di storia generale. Esso funge perciò da veicolo di una ben definita proposta didattica, che ha per principali destinatari gli studenti e, prim’ancora, i docenti di storia contemporanea. Ed è solo se lo consideriamo in una tale ottica, come strumento di un lavoro auspicabilmente cooperativo di insegnamento-apprendimento, che arriviamo ad apprezzarne il carattere e la portata innovativa.

Su quali debbano essere le finalità istituzionali del corso di storia contemporanea (al di là dei differenti ordinamenti curriculari in cui esso suole tradizionalmente trovare posto nell’università italiana) si riscontrano in giro pareri discordanti. Il passaggio al cosiddetto “nuovo ordinamento” degli studi, in congiunzione con il vistoso abbassamento del livello di preparazione storica di base dei giovani all’uscita dalle scuole superiori, ha indubbiamente favorito il diffondersi di visioni rassegnate, talora ultraminimaliste del compito del docente, che non hanno mancato di lasciare traccia nella letteratura manualistica degli ultimi decenni.

L’impegno di certo non piccolo profuso da Caracciolo e Roccucci nella produzione del loro manuale testimonia di per sé – mi sembra – come essi concordino invece con quei contemporaneisti (in certi casi assai eminenti) che in passato hanno dimostrato di credere, e ancora oggi continuano a essere convinti, che l’insegnamento universitario della loro disciplina sia in grado di porsi e non possa anzi rinunziare a perseguire traguardi assai più ambiziosi: 1) dotare lo studente di una cognizione sintetica dei grandi processi di trasformazione d’ordine economico, sociale, demografico, geostorico, tecnologico, politico, giuridico, istituzionale, culturale e religioso, ma anche di grandi avvenimenti come le guerre mondiali, che hanno plasmato e riplasmato incessantemente il mondo contemporaneo dal secondo Ottocento fino all’oggi; 2) contribuire alla comprensione pragmatica del presente, ossia dei problemi cui la realtà sociale dei tempi nostri ci mette di fronte su scala nazionale, europea e globale.

Questa concezione ambiziosa dell’insegnamento della storia contemporanea ha fatto sì che la didattica universitaria abbia offerto assai spesso l’occasione e lo stimolo per la produzione di opere collocabili in quel particolare genere storiografico che è la sintesi macrostorica: la celebre, influentissima trilogia e poi quadrilogia di Eric Hobsbawm sulla storia dell’Ottocento e del Novecento scaturisce in parte considerevole dalla sua attività di insegnante all’Università di Londra[4]; e anche La nascita del mondo moderno di Christopher Bayly, uno dei libri che hanno maggiormente influenzato il revival internazionale della World History in corso da due o tre decenni, è frutto in buona misura del suo insegnamento agli undergraduates (l’equivalente all’incirca degli studenti delle nostre lauree triennali) di Cambridge[5].

L’esigenza della sintesi macrostorica non attiene esclusivamente, peraltro, alla sfera della didattica o della divulgazione, ma è connaturata alla definizione dei compiti dello storico di mestiere sin dall’emergere di questa nuova figura professionale agli inizi del XIX secolo. Per lo stesso padre fondatore ed eroe eponimo della storiografia professionale ottocentesca, Leopold von Ranke, l’ufficio dello storico non può ridursi a un resoconto obbiettivo di ciò che nel passato è realmente accaduto. La meta suprema cui il singolo e la professione devono mirare è un’esposizione unitaria degli eventi storici che abbracci «la vita passata del genere umano (…) nella sua pienezza e totalità»[6]. Ed è possibile documentare come questo ideale conoscitivo, tra alti e bassi, e nell’ovvio mutare dei postulati epistemologici e categoriali, non sia mai rimasto privo di seguaci tra le fila degli storici professionali nei due secoli successivi.

Orbene, l’abbinamento tra la concezione che ho definito ambiziosa dell’insegnamento e la produzione di manuali ha comportato a sua volta che il manuale universitario, lungi dal ridursi a un mero compendio aggiornato di inesistenti e improponibili Institutiones di storia contemporanea, sia stato di fatto uno dei terreni e dei veicoli d’elezione della sintesi macrostorica in questo specifico ambito disciplinare. Mi limito al singolo esempio del manuale sul quale io stesso ho studiato e preparato il mio primo esame di Storia contemporanea nel lontano 1984, il cui autore è Pasquale Villani – uno dei massimi contemporaneisti italiani degli ultimi decenni, gloria del nostro Ateneo e maestro di molti dei contemporaneisti oggi in attività non solo a Napoli.

Il libro di Villani, Trionfo e crollo del predominio europeo, apparso nel 1983, rientrava in una collana del Mulino dei cui precedenti tre volumi – su Medioevo, «formazione del mondo moderno» ed «età della borghesia e delle rivoluzioni» – sono autori altri grandi nomi della storiografia italiana ed europea del tempo come Giovanni Tabacco, Alberto Tenenti e Alberto Caracciolo. Il progetto editoriale della Collana presupponeva (un po’ troppo ottimisticamente, forse, anche per gli standard di allora) l’esistenza di un mercato di lettori potenziali composto non soltanto da «studenti universitari», ma da una più vasta e crescente platea di pubblico «colto» al quale veniva attribuito – cito dalla Presentazione generale – un vivo interesse circa i «processi di fondo del mondo moderno». Alle domande di tali lettori la Collana prometteva di offrire «risposte complessive ma rigorose» nella forma di «una sintesi interpretativa accuratamente aggiornata» e focalizzata – si noti bene – sulla storia della «civiltà europea» considerata «come un tutto» che dal Medioevo raggiunge l’«inoltrato Novecento», di cui i diversi volumi avrebbero seguito il «lungo processo» di svolgimento «nelle sue successive espressioni fino alla crisi di oggi»[7].

A contrassegnare l’impianto macrostorico complessivo di questa serie di manuali era dunque il convincimento che a una comprensione adeguata e intellettualmente soddisfacente per studenti e lettori dell’intera genesi del mondo moderno e contemporaneo si potesse giungere ripercorrendo, anzitutto, le tappe che avevano preparato e scandito «lungo dieci secoli» l’ascesa dell’Europa al «graduale dominio su tutto il mondo conosciuto», culminante nel suo «trionfo» tra XIX e XX secolo, e quindi il suo «crollo» novecentesco.  L’opzione eurocentrica era del resto dichiarata a chiare lettere nel titolo della Collana del Mulino: La civiltà europea nella storia mondiale[8].

2. Mi sono dilungato alquanto in queste osservazioni preliminari perché mi sembra che siano indispensabili a cogliere la natura dell’operazione storiografica compiuta da Caracciolo e da Roccucci. In quanto manuale universitario, il loro libro presenta svariate caratteristiche innovative – prima fra tutte il largo spazio dedicato alla storia del «tempo presente»[9] –, le quali spingono a credere che i due autori, unendo le forze e le competenze, si siano voluti cimentare nel tentativo di dare concretamente risposta a una serie di esigenze, inerenti alla didattica della storia contemporanea in Italia, che da qualche anno in qua erano venute palesemente acuendosi. Ma la novità del libro su cui più mi preme richiamare l’attenzione riguarda per l’appunto la sua impalcatura macrostorica. Essa consiste nell’impiego sistematico del paradigma della storia globale, ossia in quello che sarei incline a considerare uno sforzo pionieristico, per l’Italia, volto a riconfigurare l’impianto concettuale della trattazione manualistica della storia contemporanea riallineandolo agli orientamenti macrostorici affermatisi nel contesto della reviviscenza e del rinnovamento della World History riscontrabile nella storiografia internazionale dopo la fine della Guerra Fredda[10].

La centralità analitica che Caracciolo e Roccucci attribuiscono alla categoria di «globale» – intesa nell’accezione empirica di concreto campo d’interazione storica generato da rapporti tra gruppi umani che hanno luogo negli spazi transregionali e/o nella dimensione transculturale – viene del resto posta in esplicito risalto nel sottotitolo del volume, «Dal mondo europeo al mondo senza centro». Tale formula allude alla possibilità di compendiare il senso della traiettoria percorsa dall’umanità contemporanea nel passaggio da una fase originaria, in cui essa viene unificata dall’espansione egemonica dell’Europa, a un presente – e forse a un epilogo foriero di un nuovo salto d’epoca – dove l’unità mondiale, smentendo le diagnosi del post Guerra Fredda, sembra rimasta priva di un polo egemone e di un principio regolatore delle dinamiche ecumeniche, per assumere piuttosto la forma di un’antitesi fra «terre dell’ordine e terre del caos»[11].

Un tratto essenziale e periodizzante della contemporaneità è dunque, per Caracciolo e Roccucci, un decisivo cambio di passo, collocabile fra la seconda metà dell’Ottocento e la Grande Guerra, nel processo di «mondializzazione»[12] – un termine che essi sembrano preferire al troppo equivoco «globalizzazione»[13], largamente invalso peraltro nell’uso della storiografia internazionale per indicare, secondo la definizione datane da Christopher Bayly, il «progressivo incremento della scala dei processi sociali da un livello locale e regionale a un livello globale» riconoscibile nell’intero arco dell’esperienza umana almeno dall’antichità in avanti[14]. Il salto di qualità compiuto dalla «mondializzazione», o «globalizzazione» che dir si voglia, alle soglie dell’età contemporanea segna l’avvento di una condizione storica, affatto priva di precedenti, nella quale l’intera Ecumene, in tutta la sua varietà culturale, giunge a formare una totalità tra le cui parti s’instaura una rete di connessioni in pari tempo condizionanti e dinamiche – non tanto condizionanti, cioè, da impedire ai gruppi umani che vi si ritrovano impigliati di elaborare risposte autonome alle sfide che ne provengono.

Sul piano storiografico la nuova condizione d’integrazione planetaria richiede un mutamento di prospettiva perché la dimensione e la multilateralità dei processi che vi si dispiegano trascendono le spazialità convenzionali delle tradizionali storie nazionali e d’area e contraddicono gli stereotipi eurocentrici, spesso risalenti all’età dell’imperialismo, che hanno a lungo continuato a dominare l’approccio degli storici (e dei manuali di storia in primis) al tema delle relazione globali, viziato dal disconoscimento della «agentività» dei non europei o dei non occidentali, ossia del loro stesso status di soggetti storici[15]. Dall’adozione di più adeguate categorie spaziali e di scala, e di una più aggiornata geografia delle dinamiche transregionali e transculturali, discendono una serie di concreti imperativi metodologici di cui Caracciolo e Roccucci dimostrano, e non solo dichiarano, di volere tenere effettivamente conto nella composizione del loro manuale. Qui debbo limitarmi ad accennare solo ad alcuni aspetti di questa parte del loro lavoro che considero particolarmente meritoria, specie nell’ottica dell’utilizzabilità del manuale a fini didattici.

Ad un primo e direi più ovvio livello, se ci si attiene fino in fondo all’assunto che la forma d’integrazione e connettività planetaria caratteristica della mondializzazione contemporanea dà luogo a una processualità storica di dimensioni ecumeniche e codeterminata da una pluralità e varietà di centri di iniziativa e di attività, ciò impone all’insegnante e al manuale il compito, per un verso, di ricontestualizzare nei teatri globali le vicende e i fenomeni privilegiati dalle grandi narrazioni eurocentriche tradizionali, per l’altro verso, di integrare in un nuovo racconto policentrico le esperienze di tutti i principali protagonisti coinvolti nella trama dell’interazione multipolare. Di questo duplice e non certo facile compito a me sembra che Caracciolo e Roccucci si siano fatti carico in pieno, almeno in relazione a snodi cruciali della loro argomentazione. Alcune fra le pagine più efficaci del libro, ad esempio, sono quelle nelle quali si descrive la trasmutazione della competizione internazionale intereuropea in «politica mondiale» tra fine dell’Ottocento e inizio del Novecento e il ruolo che essa svolge sia nel preparare il terreno per lo scoppio della Grande Guerra che nel favorire l’incipiente riconfigurazione in chiave policentrica della lotta per il potere mondiale osservabile già in questi anni, quando cominciano a manifestare la volontà e la capacità di prendervi parte, oltre agli Stati Uniti, anche popoli e Stati eredi di tradizioni di civiltà non europee come il Giappone[16].

A rendere inoltre il libro uno strumento didattico di particolare utilità è il congruo spazio che esso finalmente dedica al posto occupato nella storia contemporanea da «aree geopolitiche, universi culturali e itinerari storici»  – cito dall’Introduzione[17] – tanto cruciali (specie in vista della loro incidenza su assetti e dinamiche del mondo attuale) quanto ancora trascurati nella manualistica italiana, e dunque assenti nella nostra cultura storica generale, come la tradizione imperiale russa, l’area ottomana, la Cina e il «sistema sinocentrico»[18], o l’assai più vicino a noi «Medio Oriente europeo»[19], ossia la zona mistilingue del Vecchio Continente, estesa all’incirca dalla Carelia al Peloponneso, occupata prima dai grandi Imperi multietnici e multireligiosi degli Asburgo, degli Hohenzollern, dei Romanov e degli Ottomani, poi dagli Stati nazionali loro successori, e soggetta nel corso dell’età contemporanea a un processo di progressiva «nazionalizzazione», ovvero di «smescolamento dei popoli», che con le guerre jugoslave degli anni Novanta giunge fin quasi ai giorni nostri[20].

Aggiungo immediatamente, a scanso di fraintendimenti, che il libro di Caracciolo e Roccucci costituisce in pari tempo una sorta di replica fattuale a quanti, e tra costoro anche studiosi di grandissima autorevolezza[21], paventano non del tutto a torto che l’approccio globale al passato, la concomitante valorizzazione delle esperienze storiche “altre”, comportino di per sé, specie nella didattica, una retrocessione di status della storia d’Europa e della storia d’Italia, tradizionalmente e, a mio avviso, giustamente centrali nell’insegnamento sia scolastico che universitario della disciplina. Delle 750 pagine del libro circa 150 – un buon quinto – sono dedicate all’Italia dal Risorgimento alla crisi della Seconda Repubblica. Proprio la maniera in cui vi è trattata la storia nazionale mi sembra anzi un altro punto di forza del libro, perché gli autori, lungi dal limitarsi a pagare un tributo alle convenzioni del genere letterario, e in coerenza con l’impostazione metodologica di fondo del volume, prestano un’attenzione costante all’analisi dei nessi tra la vicenda nazionale e gli sviluppi del processo di mondializzazione, anche qui in sintonia con orientamenti fecondi e promettenti della recente storiografia internazionale (mi riferisco ad esempio al volume di Sebastian Conrad su nazione e globalizzazione nella Germania imperiale che del resto compare nella bibliografia del libro[22]).  E’ salutare, in una stagione politico-culturale in cui l’interesse dell’opinione pubblica nostrana per la storia dell’Ottocento sembra accendersi soltanto in occasione di polemiche come quella sui rispettivi meriti e demeriti di Borboni, briganti e Savoia, sentirsi ricordare, o ripetere con il supporto dell’argomentazione geopolitica, che la posta in gioco nel nation-building italiano era la possibilità per gli abitanti della Penisola, Mezzogiorno compreso, di «agganciarsi al processo storico della modernità» nella sola maniera in cui ciò era divenuto immaginabile nelle condizioni prevalenti nell’epoca contemporana, ossia «connettendosi al mondo»[23]: un problema – quello del «connettersi al mondo» – che Caracciolo e Roccucci sembrano ritenere una sorta di leit-motiv che percorrerà poi tutta la storia postunitaria[24], riproponendosi ancora oggi, in forme mutate, nell’alternativa tra «estroversione e autoreferenzialità» riscontrabile, ad esempio, nel dibattito sull’immigrazione[25].

Altrettanto palese della rilevanza che ai loro occhi conserva la storia nazionale è la distanza di Caracciolo e Roccucci dall’atteggiamento degli storici postcoloniali e subalternisti intenzionati, come Dipesh Chakrabarty, a «provincializzare l’Europa»[26]. La storia europea, nella loro visione, mantiene un’indubbia eccezionalità relativa che conferisce al Vecchio Continente una sia pur temporanea «egemonia» planetaria e che ne fa quindi il «centro» propulsivo della formazione del mondo contemporaneo, che emerge inizialmente – lo si è già detto – come un «mondo europeo»[27]. L’ultimo aspetto del loro approccio storico globale sul quale vorrei richiamare l’attenzione concerne per l’appunto il modo in cui il libro tratteggia il rapporto che si stabilisce tra il «centro» europeo e le società non europee (o tra «il mondo e l’Occidente», per dirla con Arnold Toynbee[28]) nel contesto della mondializzazione contemporanea.

La mondializzazione contemporanea, secondo Caracciolo e Roccucci, si inserisce all’interno di una trasformazione multidimensionale e cumulativa che investe la vita europea nella seconda metà del XIX secolo, che comprende l’industrializzazione, l’urbanizzazione, l’avvento della società e della politica di massa, l’affermazione dell’idea di nazione e degli Stati nazionali, e che imprime ai notevoli processi di cambiamento culturale, politico, demografico, economico, sociale e geopolitico prodromici della contemporaneità già osservabili nell’anteriore «età cerniera», inaugurata alla metà del Settecento dalla guerra dei Sette anni[29], l’«accelerazione» rivoluzionaria che autorizza a parlarne come dell’apertura di una nuova epoca storica che, nelle sue caratteristiche di fondo, si protrae sino alle soglie della «nuova “età cerniera”» nella quale il mondo parrebbe essere entrato nel “post post Guerra Fredda”[30]. E’ la proiezione espansiva sugli scenari globali della «grande trasformazione» avviatasi in Europa a generare la forma d’«interconnessione del mondo» caratteristica della contemporaneità già negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando l’Europa assurge a «centro del mondo»  per mezzo del suo imperialismo formale e informale e quando ha inizio la «diffusione mondiale», ovvero transculturale, delle sue innovazioni-chiave recenti come l’urbanizzazione[31].

Ma il dislivello di potere tra gli europei e i popoli da loro a vario titolo colonizzati e la forza d’irradiamento della modernità europea non esauriscono il ventaglio di fattori di cui occorre tenere conto, per Caracciolo e Roccucci, nel valutare la logica e gli esiti della globalizzazione coloniale[32]. Le «condizioni locali» delle periferie dove s’impiantano i modelli europei contribuiscono a fare sì che il risultato sia un «amalgama tra i fattori di modernizzazione e le sedimentazioni storiche secondo tipologie diversificate»[33]. Il margine di libertà di cui possono disporre i non occidentali chiamati a misurarsi con la sempre più incalzante sfida della occidentalizzazione permette a molti di loro (ma anche a grandi istituzioni tradizionali occidentali come le chiese cristiane[34]) di rispondere a essa intraprendendo la ricerca di vie alla modernità che non passino per l’omologazione e l’assimilazione all’Occidente, ma per una miscela di appropriazione selettiva delle uniformità globali e di rinnovamento dei patrimoni culturali autoctoni. Già nei decenni anteriori alla prima guerra mondiale, all’«apogeo del dominio europeo», comincia a delinearsi insomma un «sistema di modernità multiple» – come Caracciolo e Roccucci rimarcano richiamandosi esplicitamente alle tesi di Shmuel Eisenstadt[35].

Si tratta di una conclusione di notevole rilievo, e da cui mi pare si ricavi un suggerimento importante circa i benefici anche di ordine pratico che potrebbero derivare dal diffondersi nel nostro paese di una cultura storica generale improntata ai princìpi esemplificati dal libro di Caracciolo e Roccucci. Lo studio critico dei modi effettivi in cui la mondializzazione contemporanea è venuta foggiando i profili identitari dei soggetti partecipi dell’interazione sociale nel mondo globalizzato smentisce le stereotipizzazioni pseudo-storiche ed essenzializzanti tendenti ad accreditare il pregiudizio che tra “Noi” e “Loro” (tra “Noi” italiani, ad esempio, e i migranti extracomunitari di varia provenienza) intercorrano differenze irriducibili, incasellabili in schemi rozzamente dicotomici. La storia globale degli ultimi 150 anni ha generato, piuttosto, una gamma numerosa di quelle che la studiosa statunitense Emily Rosemberg ha definito «differentiated commonalities» – rassomiglianze, cioè, risultanti dalla condivisione di esperienze comuni o analoghe, ma declinate, in pari tempo, secondo i più svariati codici culturali[36].

Le interazioni del passato, in quanto hanno reso possibile un alto grado di convergenza interculturale, ci consegnano perciò non solamente una tragica eredità di conflitti e di violenze, ma vaste e molteplici opportunità di reciproco accomodamento tra patrimoni identitari tutt’altro che rigidi, monocordi, mutuamente esclusivi e incomunicanti. Contribuire allo sfruttamento di tali opportunità, in funzione ad esempio di una politica nazionale dell’integrazione finalmente all’altezza della portata epocale del fenomeno migratorio, è forse un servizio che l’insegnante e il manuale di storia contemporanea possono legittimamente aspirare a rendere alla causa del rafforzamento della declinante capacità dell’Italia di «connettersi al mondo».

[1] L. Caracciolo, A. Roccucci, Storia contemporanea. Dal mondo europeo al mondo senza centro, Firenze, Le Monnier Università – Mondadori Education, 2017.

[2] Torino, Einaudi, 2011.

[3] L. Caracciolo, Alba di guerra fredda, Roma, Laterza, 1986.

[4] F.A. Martínez Gallego, Síntesis, globalidad e interpretación: la tetralogía contemporánea de E. J. Hobsbawm, «Historia Social», 25, 1996, pp. 91-112.

[5] C. A. Bayly, The Birth of the Modern World, 1780-1914. Global Connections and Comparisons, Oxford, Blackwell, 2003 (trad. it. di M. Marchetti e S. Mobiglia, Torino, Einaudi, 2007).

[6] T. Tagliaferri, Dimensioni della storiografia contemporanea, vol. I, Nel secolo della storia, Napoli, Giannini, 2013, pp. 24-25. La citazione è tratta da un manoscritto rankiano degli anni Sessanta dell’Ottocento.

[7] P. Villani, Trionfo e crollo del predominio europeo. XIX/XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 5.

[8] Ibidem. Nei medesimi anni, del resto, e sempre nell’Università di Napoli, si veniva iniziati alla «storia della società moderna e contemporanea» da una brillante, benemerita e almeno per me enormemente formativa Introduzione al suo studio, scritta sempre per Il Mulino da Paolo Macry (ho sotto gli occhi la prima edizione del 1980),  dove la «società» in oggetto coincideva, in larghissima misura, con quella europea e occidentale.

[9] L. Caracciolo, A. Roccucci, Storia contemporanea, cit., p. 690.

[10] Si veda al riguardo anche A. Roccucci, Spatial turn e geopolitica. Il nesso spazio-temporale e il carattere plurale della storia, «Il mestiere di storico», VIII (2016), 2, pp. 23-45.

[11] L. Caracciolo, A. Roccucci, Storia contemporanea, cit., p. 738.

[12] Ivi, p. XIII e passim.

[13] Ivi, pp. 719-722.

[14] C. A. Bayly, “Archaic” and “Modern” Globalization in the Eurasian and African Arena, c. 1750-1850, in Globalization in World History, edited by A. G. Hopkins, London, Pimlico, 2002, pp. 48-49.

[15] C. A. Bayly, Ashin Das Gupta, «Journal of the Economic and Social History of the Orient», XLIII (2000), 1, p. 16.

[16] L. Caracciolo, A. Roccucci, Storia contemporanea, cit., pp. 217-249.

[17] Ivi, p. XIV.

[18] Ivi, p. 38.

[19] Ivi, p. 26.

[20] D. Hoerder, Migrations and Belongings, in A World Connecting, 1870-1945, edited by E. S. Rosenberg, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2012, pp. 548, 552 (trad. it. di P. Arlorio in Storia del mondo, V, I mercati e le guerre mondiali, 1879-1945, Torino, Einaudi, 2015, pp. 615, 616, 621).

[21] Secondo la percezione e la diagnosi del compianto Giuseppe Galasso, riferita alle scuole italiane ed europee, «mentre prima nelle rappresentazioni storiche generali l’Europa occupava un posto centrale, ora si parla soprattutto di world history. Il ruolo del Vecchio Continente viene ridotto drasticamente, contro ogni evidenza storica. E all’Europa vengono imputate solo colpe, ad esempio il colonialismo, senza tener conto della parte complessiva dell’Europa nella storia del mondo» (Galasso: «La Storia è in crisi ma è ancora maestra di vita», «Il Corriere del Mezzogiorno», 23 settembre 2017, intervista di Mirella Armiero).

[22] S. Conrad, Globalisierung und Nation im deutschen Kaiserreich, München, Beck, 2006.

[23] L. Caracciolo, A. Roccucci, Storia contemporanea, cit., p. 110.

[24] Ivi, pp. 250-251 e passim.

[25] Ivi, pp. 692, 699.

[26] D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton, PUP, 2000 (trad. it. di M. Bortolini, Roma, Meltemi, 2004).

[27] L. Caracciolo, A. Roccucci, Storia contemporanea, cit., pp. XIII, 112.

[28] A. J. Toynbee, The World and the West, London, OUP, 1953 (trad. it. di G. Cambon, Palermo, Sellerio, 1992).

[29] L. Caracciolo, A. Roccucci, Storia contemporanea, cit., pp. 1-43.

[30] Ivi, pp. XII, XIII-XIV.

[31] Ivi, pp. XII, XIII, 130, 139, 172.

[32] T. Ballantyne, A. Burton, Empires and the Reach of the Global, in A History of the World, vol. V, cit., pp. 285-434 (trad. it. cit., pp. 313-493)

[33] L. Caracciolo, A. Roccucci, Storia contemporanea, cit., pp. 139, 149. La principale osservazione critica che mi sentirei di rivolgere agli autori è che nel manuale non viene tenuta nella debita considerazione la possibilità – su cui ha invece molto insistito Bayly – che gli apporti non europei all’«amalgama» si radichino a loro volta in percorsi autoctoni alla modernità attivatisi già nei secoli anteriori al lungo Ottocento, e si tende perciò ancora a identificare in maniera troppo esclusiva la componente dinamica e modernizzatrice della mondializzazione con l’iniziativa occidentale. Cfr. T. Tagliaferri, La genesi del Secondo Impero e la transizione alla modernità globale: Christopher Bayly e la via britannica alla World History, di prossima pubblicazione su «Ricerche di storia politica».

[34] L. Caracciolo, A. Roccucci, Storia contemporanea, cit., pp. 162-166.

[35] Ivi, pp. 217, 249. Sul tema è da vedere l’intero fascicolo di «Daedalus» – CXXIX (2000), 1, Multiple Modernities – nel quale comparve l’oramai celebre saggio di Eisenstadt.

[36] E. Rosemberg, Transnational Currents in a Shrinking World: 1870-1945, in A History of the World, vol. V, cit., p. 820 (trad. it. cit. – di P. Pace – p. 865).

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